Toc. Toc. Toc. Ancora. Ed ancora. Ed ancora. Quanti rintocchi avrà raggiunto quest'orologio senza ore da segnare? Quante volte questo spettro ha bussato alla tua mente? Toc. Toc. Toc. Ormai questo ritmo è divenuto un fedele amico. Da quanto tempo s'è impiantato nei tuoi pensieri? Ore? Giorni? Mesi? Anni? Aspetta. Ha importanza? Forse no. Nulla, qui, conta più. Come potrebbe? Lì non v'è—niente. Neppure il sole. Buio. E' tutto così dannatamente buio. Quasi claustrofobica la sensazione d'esser immerso in una oscurità senza via d'uscita, uno spazio senza inizio né fine, senza limite alcuno. Sei sospeso nell'eterno, in un nero intangibile e incancellabile. Sospeso ad un filo che ti mantiene a galla in quello che sembra un impalpabile oceano di pece. Il tuo corpo galleggia leggero e pesante al tempo stesso, non v'è aria a scivolare sulla tua pelle d'alabastro, né vento a scuotere i capelli d'onice. Nessun suono a raggiungere il tuo orecchio se non quel continuo Toc. Toc. Toc. Libero. Libero di muoverti come più t'aggrada, libero di camminare, correre o saltare. Libero persino di cadere. Solo in mezzo all'infinito, lo spazio ed il tempo son piegati al tuo volere e nulla ha reale consistenza lì, persino i ricordi. Un tempo pesanti fardelli a gravare sulle tue forti spalle, qualcosa al quale ritornare, qualcosa che volevi riafferrare saldamente fra le dita. Ritornare alla tua vita, a quella casa in quel di Konoha dove una figlia attende ed una giovane combatte giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno. Senza di te. Il solo pensiero è insostenibile, non è vero? Non solo il non poter tornare, non solo il non poterle proteggere, no. E' il non sapere. Non sapere dove siano, come e perchè. Non sapere se mai hanno invocato il tuo nome, se ancora, fedeli, attendono in casa il ritorno di quel pezzo mancante della loro vita. Toc. Toc. Toc. Ma adesso tutto sembra così tristemente—lontano. Come se ogni memoria d'allora appartenesse ad una vita passata, persino a quella di qualcun altro fuori dalla tua pelle. Toc. Toc. Toc. Che suono aveva la loro voce? Com'era la loro risata? E sotto le dita, quant'erano soffici i loro capelli? Domande. Domande. Domande. Toc. Toc. Toc. Ed il tempo scorre, quell'incessante rintocco nella tua testa scandisce l'incedere dei secondi ad un ritmo che varia, che non è mai uguale. Toc. Toc. Toc. E ti fa impazzire. E al tempo stesso ti culla. E ti avvisa. Toc. < Vogliamo giocare? > Oh-- è di nuovo qui. [Ambient personale]
Il tempo fluisce in maniera bizzarra, si sa; se ci si sta divertendo, se si è eccitati, se si è preda di una emozione violenta e bruciante, par scorrere ad una veolocità fastidiosamente elevata al punto da sentirsi quasi svanire quelle emozioni dalle mani. Se ci si sta annoiando, se si ha paura, se si è tristi, i secondi paiono dilatarsi fin quasi allo spasimo in un incedere talmente lento da far male al cuore. Il tempo segue logiche che probabilmente nessuno avrebbe mai compreso ma mai come in questo momento si potrebbe dire che il tempo paia essersi cristallizzato. Come puoi tenere il conto quando tutto è sempre uguale attorno a te? Quando tutto è semplicemente nero, buio e vuoto? Nulla muta, nulla varia, neppure quei continui e regolari incontri con *Lui*. “Vogliamo giocare?” principia ogni volta comparendo dinnanzi a te con quella solita aria da ragazzino mai cresciuto, la voce acuta da infante che chiosa parole taglienti. E dunque fra loro compare-dal niente, la solita scacchiera. Quante partite avete già giocato? Quante parole sono state dette fra una mossa e l'altra di quel gioco ormai divenuto un qualcosa di meccanico? Bianco. Nero. Nero. Bianco. Avanti. Avanti. Avanti. Pareggio. La tua voce giunge leggera, sottile, un sussurro basso che par quasi sfuggire stanco dalle tue labbra schiuse portando il bambino a sorridere prendendo posto dal suo lato della scacchiera. < La consideri pazzia? > domanda lui inclinando il capo, le dita intrecciate sotto il viso, i gomiti puntellati sulla tavola fra voi. < Non è forse folle colui il quale non ha dialogo alcuno con se stesso? > chiede tenendo lo sguardo fisso nel tuo, osservandoti, studiandoti. < Dopotutto, il nostro io è l'unica persona al mondo col quale condivideremo il resto della vita. L'unica persona al mondo che non possiamo dimenticare. > .. < Che non *può* dimenticare. > sottolinea quella piccola parola con tono sottile, pungente, quasi caricando la voce con una sfumatura amara della voce. Una sorta di tagliente sarcasmo malamente celato: dopotutto quel che v'è nella sua mente è nella tua. Kenbonsho tace, osserva le tue mani levarsi, incastrarsi fra quei capelli d'ombra in una presa esausta. Non si scompone, non si smuove, limitandosi semplicemente a schiudere le labbra in un chiosare serafico e rilassante, quasi accogliente. < Divertente? > domanda il ragazzino inspirando. Espirando. < A dire il vero sei piuttosto noioso. > rivela con un piccolo sbuffo, adagiandosi sulla sua seduta, così piccolo contro lo schienale alto e ampio di quella sedia troppo grande per un bambino. < Ma dopotutto lo sai, no? > continua il bambino tenendo fissi gli occhi scuri sul tuo volto stanco ma non ancora sconfitto. < Non ho mai giocato per divertirmi. La sola cosa che vogliamo è v i n c e r e. Anche contro noi stessi. > C'è mai stato divertimento, nella tua vita, prima? Hai mai giocato per il solo gusto di ridere? Per il solo gusto di stare *bene*? Neppure da bambino, una vita fa, hai mai riso davvero. Cresciuto troppo in fretta, troppo presto. Troppo. Ed ogni sfida, ogni competizione, fatta per il puro gusto di essere padrone della situazione, a capo e comando di ciò che si stava verificando attorno a te. Ogni impresa, ogni missione, ogni relazione: non per divertimento, non per gioia. Per vincere. Per sentirti al comando dopo anni passati nel tempo a non poter controllare ciò che s'abbatteva crudele attorno a te. E lui lo sa. Lui c'era. C'è stato sempre. < Tocca a te. > T'invita, dunque, a muovere per primo. [Ambient personale]
Immersi nell'infinita oscurità di un momento sospeso nell'eterno, giocate l'ennesima partita ad un gioco che non prevede né vincitori né vinti. Entrambi seduti da un lato all'altro della tavola, entrambi chini su di essa con le dita intrecciate sotto il viso, l'uno lo specchio dell'altro. Uno specchio che prende il tempo e lo deforma e lo cambia e ripropone due versioni assai differenti del medesimo individuo. L'uomo che ostenta la sua crescita, la sua forza, la sua evoluzione. Ed il bambino che rimarca quanto abbiano fallito, insieme, nel tempo. Quanto male si sia annidato in loro, quanto male sia fluito sotto i loro occhi, fra le loro dita. Quanto forse tutto sarebbe meglio se, semplicemente, si lasciasse andare la presa su quel filo che li tiene sospesi in quel galleggiare nel nulla. Per un istante soltanto, espirare e... cadere. Precipitare fino a sentire il vento schiaffeggiare la pelle e privarli di ogni cosa, ogni ricordo, ogni emozione. Ogni... timore. Liberi. Nuovi. Dimentichi di ogni cosa, di ogni dolore, di ogni paura. Il capo del bambino s'inclina, i grandi pozzi neri sul suo viso si fissano in quelli della sua controparte mentre le lunghe ciglia infantili vengon fatte sbattere contro le gote morbide, pallide. < Non è quello che cerchi? > domanda Dissoluzione inarcando un sopracciglio. < Ancora menti a te stesso, Azrael? > sospira, annoiato da quella solita, solita solfa. E poi quel dire giunge diretto, schietto, all'orecchio del bambino che, risollevandosi, osserva il Dainin con le labbra schiuse in un brevissimo attimo di stupore. Lentamente, poco a poco, i veli cadono, i segreti cedono. Non v'è motivo -d'altronde, per cui dovresti mentire a te stesso, no? E se forse un tempo non avresti ammesso, non avresti rivelato quanto piacere ti procura la sensazione di provocare dolore in qualcuno, adesso la verità esce fuori, viene a galla, un peso che svanisce dal tuo petto quando quelle parole trovano voce. Accettazione. < E non è vittoria, questa? > domanda Kenbonsho andando ora a mostrare una piccola scintilla nello sguardo. < Quando la loro voce supplica perdono, quando una nostra parola, un nostro dito, può significare per loro Vita o Morte? > continua lui con le labbra a distendersi in un sorriso compiaciuto, soddisfatto, il tono eccitato a quel pensiero--perverso. < Ma no. Non hai capito niente. > aggiunge poco dopo scuotendo il capo, espirando, muovendo l'ennesima pedina in risposta alla tua mossa, procedendo in quel gioco che si protrae fra voi come un elastico troppo teso. < Non è questo che ricerco da te. Ma ancora. Non. Capisci. > Lo sguardo si fa duro, le sopracciglia s'abbassano, s'aggrottano e le labbra si fanno sottili in una linea dura sul viso infantile. < Credi che io desideri vederti soffrire? Che voglia vederti *supplicare*? > chiede contrariato, quasi persino offeso da quell'insinuazione. < Come se non abbiamo già sofferto abbastanza. Come se non abbiamo dovuto già supplicare abbastanza. No. Mai più. > quasi ringhia, quell'espressione da fiera feroce che quasi par sinistra su un viso così giovane, così piccolo. < Mai. Più. > ripete stringendo le labbra, assottigliando lo sguardo. E poi la tua proposta arriva, lo raggiunge e appena placa quel fremito delle dita chiuse fra loro, delle labbra sottili da cui s'affacciano denti candidi e dritti. < Mhn? > aggrotta le sopracciglia, l'infante, fissandoti. < Cosa mi proponi? > [Ambient personale]
Normale. Cosa è normale? Normale sarebbe- a questo punto di questa lunga partita, capitolare. Normale sarebbe, dopo tanto tempo, arrendersi. Fermarsi. Gridare. Normale sarebbe pregare, spegnersi, dissolversi fino a divenire ombra fra le ombre e semplicemente svanire. Qualcosa che, per il nostro eroe, dovrebbe essere assai semplice, non è vero? Lui che le ombre le piega e distorce al suo comando, lui che l'ombra ce l'ha nel sangue per diritto di nascita. Eppure... eppure. Nonostante il tempo, nonostante il dolore, la stanchezza, persino l'ottenebrante noia, non cadi. Non t'arrendi. Non ti spegni. La tentazione è scivolata suadente lungo la tua pelle, nella tua mente è passato il pensiero di quella così deliziosamente allettante resa. Ma ti sei frenato. Ti sei fermato. Hai combattuto. Aggrappato così tenacemente ad una vita che di te s'è fatta spesso beffe e che di ferite non si è risparmiata. Aggrappato al pensiero di un ritorno, al ricordo di un tramonto, alla mancanza d'un abbraccio. E sebbene stanco, sebbene sfibrato da quell'incessante Toc. Toc. Toc., il tuo animo ruggisce e lo sguardo non si spegne. Rispondi, affondi, attacchi con elegante pacatezza perchè così sospeso nell'eterno nessun gesto estremo ha poi tanto senso: un grido si disperde quanto il più labile sussurro. E Kenbonsho sospira, stanco di quell'infinito gioco, alzando al cielo le pupille sotto le palpebre abbassate, scuotendo contrariato il capo con quel fare così fanciullesco e fresco. < Sei davvero-- > La sua voce però si ferma quando le tue mani vanno impadronendosi della scacchiera. Osserva il tuo fare a labbra schiuse, quella presa di posizione, quel semplice uscire fuori dalle regole e dagli schemi per il puro gusto di sfuggire dal gioco ideato e proposto da qualcun altro. Persino da un altro te stesso. E allora ribalti la situazione, cerchi di dare una nuova rotta a quella situazione, una nuova via a quella discussione. Una proposta, una sfida, l'ennesimo tentativo. Ed il bambino stringe le labbra, stringe i pugni andando ad indurire lo sguardo. < E' questo il nostro posto. Questa è la *nostra* testa. Io sono te. > ripete il bambino con quell'infantile testardaggine poco paziente. < E quale credi che sia il tuo posto? Eh? Non hai più nemmeno una casa! > Lo scherno trasuda acido dalle labbra del bambino, la tavola sparisce e non restano che due figure a scontrarsi l'uno dinnanzi all'altra, seduti su due differenti troni. < Nemmeno una famiglia. Chi si ricorderà ancora di te? Da quanto tempo siamo qui, Azrael? E chi è mai venuto a cercarci? A portarci via? > domanda il bambino fissandoti ora dritto negli occhi, serio, mortalmente serio, alzandosi dal suo scranno con le sue gambe corte. < Katsumi? Yukio? Akendo? > chiede con una risata amara sotto i baffi. < Quell'uomo ti ha voluto al suo fianco, eri forte, eri utile. Ti ha portato via da casa con quell'anello. E poi? Dov'è adesso? Probabilmente avrà soltanto *dimenticato.* > .. < E Mekura? Dov'è Mekura? Puoi sentirla con quel vostro stupido sigillo? Ha invocato mai il tuo nome? > Azrael, Azrael. Sicuramente un tempo deve aver pronunciato il tuo nome, ma... com'era la sua voce? Quand'è stata l'ultima volta? Quando hai sentito, prima dell'Abisso, le sue emozioni propagarsi in te? < No, vero? Perchè avrebbe dovuto? Chi siamo noi per lei? Chi siamo noi per loro?! > Il respiro si fa rapido, il petto s'alza rapido nel suo petto e tu la vedi, la riconosci, la senti... quella sensazione. Il fuoco che s'alimenta sotto pelle, quella fiammata che sale in un istante e brucia e consuma e logora e tinge ogni cosa di rosso. Quella sensazione di onnipotenza e annichilimento ove sopra è sotto e tutto è niente e solo tu esisti e quel prurito fastidioso che solletica le dita. < Niente. Nessuno. Sostituibili, dimenticabili, come un pacco lasciato nella foresta della morte. > Risentimento, astio, rancore. < Non lo vedi? Non capisci?! Noi siamo-- niente. E allora a che serve ripensare ai loro nomi di notte se alla fine nessuno di loro si ricorderà davvero di noi? Se finiranno con l'abbandonarci, con il tradirci o con l'andare avanti senza di noi? > E per la prima volta la fastidiosa e fredda maschera di sdegno e superiorità--si crepa. Uno spiraglio assai sottile di... disperazione? Timore? Paura? Non è chiaro ma tu--puoi sentirlo. Lui è te. E tu sei lui. < Nessuno sarà mai fiero di noi. Nessuno resterà per sempre. Alla fine esistiamo solo io e te. Tutto il resto è solo... nulla. > [Ambient personale]
L'urlo squarcia il nulla e per un brevissimo istante risuona come tuono tutt'attorno. Persino quel fastidioso, continuo, irritante Toc. Toc. Toc. si placa e null'altro resta se non il riverberarsi del sangue nel tuo corpo a sciabordare nelle tempie, nelle orecchie, assieme al respiro pesante, al suono delle dita che si stringono forte a causa di quel ben noto e familiare prurito. Il viso è paonazzo, sì, il cuore accelera furioso, ferito nel petto e il sangue va alla testa. Basta, basta. Il gioco è bello quando dura poco e questa partita si è protratta forse per fin troppo tempo. Azrael è stanco e le parole del suo io divengono semplicemente insostenibili. Stanco. Stanco d'aver paura. Stanco di temere d'esser dimenticato. Stanco di chiedersi perchè. Ed il bambino, alla fine-- piange. < E tu non hai paura? > chiede ormai sfinito, con le mani lungo i fianchi, morte, e gli occhi neri ricolmi di lacrime d'argento, le labbra tirate su nel tentativo di frenare, forse, un singhiozzo. < La mamma ci ha abbandonati prima ancora che potessimo ricordarla. Nostro padre ci picchiava e per poco non ci ha ucciso. Nostra madre è in carcere con le mani sporche di sangue. Kuricha è morta perchè abbiamo dovuto fermarla. E Mekura-- lei... dov'è lei? > le parole vengono fuori con una voce fragile, rancore e paura si mescolano e confondono in un tono tutto nuovo, straziato, spezzato, rievocando ricordi perduti e altri accuratamente conservati, esperienze che hanno rotto e distrutto più parti di te di quanto non avresti voluto ammettere. < Non è venuta. Non c'è! Ci ha mai amati davvero? O ha scelto noi perchè era l'alternativa migliore? > chiede tirando su col naso, le labbra tremanti di un bambino spaventato. < Tu non hai paura? > ripete allora Kenbonsho, spezzato, scuotendo vigorosamente il capo. < Non ti credo! Bugiardo! > Perchè, dopotutto-- la sua paura è la tua, non è così? < Perchè non possiamo solo-- dimenticare?! > E sebbene voi siate Uno, il vostro cuore sceglie una strada diversa. Rimanere. Scappare. Il bambino è stanco, è ferito, piange di nascosto perchè non può farlo alla luce del sole e vuole solamente cancellare ogni brutto ricordo come fosse un pessimo sogno. L'uomo è stanco, piegato, afflitto, ma animato di forza di vivere. Non vuole dimenticare. Non vuole cadere. Non vuole dissolversi. Azrael Nara è un figlio perduto e abbandonato. Azrael Nara è un bambino trovato e maltrattato. Azrael Nara è un bambino salvato e cresciuto troppo in fretta. Azrael Nara è un allievo diligente, un bravo combattente. Azrael Nara ha le mani sporche del sangue di chi ha amato. Azrael Nara è stato abbandonato. Azrael Nara è il risultato di ogni sua esperienza, è la somma finale di ogni cicatrice sul suo corpo. E gli piace. Azrael Nara è, infine, allo specchio con se stesso. E non ci sta, non ce la fa più: per molto, troppo tempo ha ricacciato quel tormento, per altrettanto -gli pare, ha dovuto affrontare i propri demoni. Ma adesso basta. E' la resa dei conti. Azrael Nara è stanco e vuole tornare a casa. I palmi vengono premuti forte contro il capo, le tempie fragili incassano quella pressione crescente mentre la sua voce si eleva alta, dirompente, in quel nulla soverchiante. Kenbonsho sgrana gli occhi e, impallidendo, corre. Ci vuole poco, il tempo di uno, due, tre respiri prima che quelle manine vadano ad afferrare le tue maniche, il suo piccolo corpo ad impattare contro il tuo, fremente. Tremante. < No, no, fermati, non farlo! > grida spaventato, tirando, strattonando le tue mani dal tuo capo. < Non voglio morire! Basta, ti prego! > piange forte, ansimante, guardandoti in viso. E la maschera cade in frantumi taglienti sotto i piedi. Il ragazzino si rivela per quello che è sempre stato, fin dall'inizio. Un-- bambino. Solo. Spaventato. Stanco. Solo. Quel bambino che conta solo su se stesso perchè degli altri non si può fidare. Quel bambino che ha visto svanire sotto gli occhi chi aveva promesso di rimanergli accanto. Quel bambino che nonostante la sua forza, ha solo una gran paura di cadere. [Ambient personale]
E' così strano. Di corpi, queste braccia, ne hanno stretti tanti. Le tue mani hanno sentito la consistenza di carni, pelli diverse sotto le dita sottili, tante da non poterle quasi ricordare tutte. Eppure mai come in quel momento quel gesto è parso così... intenso. Quella stretta attorno a quel piccolo corpicino tremante ti dà più forza di quanta ne avresti mai immaginata. Ti senti sbriciolare, cadere in pezzi eppure al tempo stesso non ti sei mai sentito così--completo. Abbracci quel te stesso bambino, quel dolore scacciato e ripudiato per così tanto tempo accogliendo, accettando la sua esistenza dentro di te. Ti imponi come padrone di te stesso e per la prima volta non tramite il sangue, ma con una carezza. E se nel tempo di gente che realmente ha creduto in te ce n'è stata poca, una persona più di altre avevi bisogno di avere al tuo fianco per sentirti davvero imbattibile. Te stesso. Quel te stesso rimasto un bambino abbandonato e sperduto, quel te stesso ferito dal dolore di anni di battaglie e tradimenti. Lo ritrovi in te e lo stringi forte in una presa calma, calda e rassicurante. Kenbonsho si abbandona a quel gesto, piange contro il tuo petto e poco a poco quel suo pianto si mescola e confonde con un altro suono al quale quasi avevi smesso di far caso. Toc. Toc. Toc. Toc... Il battito continua, lento, incessante, ma sempre più lieve. Non più un tamburo che rulla nelle orecchie, ma le lancette di un orologio che ticchettano piano. Lontane. Distanti. La tua voce culla quel pianto, le tue parole sono ricolme di una nuova consapevolezza, di una nuova forza. A volte per essere forti va bene persino cadere. Il bambino tira su col naso, trema fra le tue braccia e si ritrova alla fine a fremere quando quelle parole giungono al suo animo. "Sono fiero di te". E null'altro ha importanza. Mentre stringi e ricacci in te quel lato di te stesso fino a quel momento tenuto a distanza e temuto, qualcosa muta; una crepa. Come un fulmine queste sottili linee bianche emergono dal buio e straziano l'oscurità che fino a quel momento v'ha avvolti assoluta. Come falangi nodose queste crepature d'argento vanno combattendo quell'oscurità fino a quando pezzi di essa non vanno a cadere e svanire. Kenbonsho svanisce, leggero, dentro di te e pesanti come macigni le tue palpebre si trovano lentamente a sollevarsi, stanche. Questa volta non v'è buio, non v'è oscurità e non galleggi. Il tuo corpo è in verità piuttosto pesante, indolenzito, ma concreto, reale. Il viso è umido di lacrime appena versate e nella solitudine di quell'isola da cui sembri non essere mai uscito, la cosa che più ti fa sentire spaesato è l'improvvisa assenza di un fedele compagno. Nel silenzio della notte non v'è più alcun Toc. Toc. Toc.[END]