{ Essere Uno } - Torniamo a casa

Quest

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Toc. Toc. Toc. Ancora. Ed ancora. Ed ancora. Quanti rintocchi avrà raggiunto quest'orologio senza ore da segnare? Quante volte questo spettro ha bussato alla tua mente? Toc. Toc. Toc. Ormai questo ritmo è divenuto un fedele amico. Da quanto tempo s'è impiantato nei tuoi pensieri? Ore? Giorni? Mesi? Anni? Aspetta. Ha importanza? Forse no. Nulla, qui, conta più. Come potrebbe? Lì non v'è—niente. Neppure il sole. Buio. E' tutto così dannatamente buio. Quasi claustrofobica la sensazione d'esser immerso in una oscurità senza via d'uscita, uno spazio senza inizio né fine, senza limite alcuno. Sei sospeso nell'eterno, in un nero intangibile e incancellabile. Sospeso ad un filo che ti mantiene a galla in quello che sembra un impalpabile oceano di pece. Il tuo corpo galleggia leggero e pesante al tempo stesso, non v'è aria a scivolare sulla tua pelle d'alabastro, né vento a scuotere i capelli d'onice. Nessun suono a raggiungere il tuo orecchio se non quel continuo Toc. Toc. Toc. Libero. Libero di muoverti come più t'aggrada, libero di camminare, correre o saltare. Libero persino di cadere. Solo in mezzo all'infinito, lo spazio ed il tempo son piegati al tuo volere e nulla ha reale consistenza lì, persino i ricordi. Un tempo pesanti fardelli a gravare sulle tue forti spalle, qualcosa al quale ritornare, qualcosa che volevi riafferrare saldamente fra le dita. Ritornare alla tua vita, a quella casa in quel di Konoha dove una figlia attende ed una giovane combatte giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno. Senza di te. Il solo pensiero è insostenibile, non è vero? Non solo il non poter tornare, non solo il non poterle proteggere, no. E' il non sapere. Non sapere dove siano, come e perchè. Non sapere se mai hanno invocato il tuo nome, se ancora, fedeli, attendono in casa il ritorno di quel pezzo mancante della loro vita. Toc. Toc. Toc. Ma adesso tutto sembra così tristemente—lontano. Come se ogni memoria d'allora appartenesse ad una vita passata, persino a quella di qualcun altro fuori dalla tua pelle. Toc. Toc. Toc. Che suono aveva la loro voce? Com'era la loro risata? E sotto le dita, quant'erano soffici i loro capelli? Domande. Domande. Domande. Toc. Toc. Toc. Ed il tempo scorre, quell'incessante rintocco nella tua testa scandisce l'incedere dei secondi ad un ritmo che varia, che non è mai uguale. Toc. Toc. Toc. E ti fa impazzire. E al tempo stesso ti culla. E ti avvisa. Toc. < Vogliamo giocare? > Oh-- è di nuovo qui. [Ambient personale]

10:36 Azrael:
 Pochi secondi? Ore? Giorni? Forse addirittura mesi od anni interi passati lì. Nell'incessante vuoto di una mente malata, forse, mai stata più sana di quanto lo sia in quel momento. Il rintocco che un tempo lo ossessionava ora non gli fa da altro che confidente, amico, cooonna sonora di un'esistenza che, mai come ora, sente lontana. Come sabbia che, granello dopo granello, gli scivola tra le dita. E più stringe, più s' appresta a perdersi nel denso abisso della disperazione, della dimenticanza. L'Oblio. La sua unica certezza, ormai. Il ssuo Villaghio, la sua Konoha che ha giurato di proteggere. Mekura, a cui aveva promesso di rimanere, di non lasciarla mai andare. Eppure eccolo qui, intrappolato in un incubo che non vede fine. Forse morto, forse condannato a quella dannazione così eterna, tanto tangibile nella propria anima quanto eterea agli occhi altrui. Il suo corpo, abbandonato da qualche parte disteso nel nulla. Un tempo garanzia di successo ed adesso null'altro che parco di divertimenti di una bestia, un demone che lo attanaglia da ormai così tanto tempo da non ricordarsene nemmeno più. Smagrito, emaciato, probabilmente così pallido da poter essere facilmente scambiato per un fantasma. Nella propria mente, invece, cosa c'è? Una figura alta, dal fisico allenato e temprato da anni di fatica. Ed e stato tutto, TUTTO, così inutile. In un battito di ciglia o, forse, in secoli di torrure psicologiche, quegli anni di intemperie ed ostacoli superati non servono più a nulla. Un torturatore che mai avrebbe pensato di trovarsi, un giorno, dalla parte della vittima. La mano che un tempo reggeva salda il manico del coltello si trova ora a sanguinare e soffrire per le ferite inferte dalla lama. Lo sguardo nero pece non più sicuro come un tempo, quelle due pozze di petrolio, un tempo brillanti, sono ora due pietre opache e prive di scintille. Vitree le sue iridi viaggiano alla ricerca della figura del suo aguzzino. Un tempo detestato, ma ora suo unico amico. Quasi si tranquillizza al sentirne la voce, conscio del fatto che, senza di essa, la solitudine ed il silenzio lo ucciderebbero. < Kenbosho, amico mio... > Lo chiama, un sussurro rilasciato dalle labbra appena schiuse, liberato da un petto privo d'aria. < Quanto può essere pazzo un uomo che parla da solo? > Un lieve sorriso gli incurva gli angoli della bocca. Quella domanda, o forse affermazione, è più rivolta a se stesso che a lui, ma... in fondo non è la stessa cosa? < Vogliamo giocare... > Le mani che prima erano volte a peso morto sulla linea dei fianchi verrebbero portare ora al capo. Le dita a mischiarsi nel crine scuro, per ravviarlo all'indietro e poi sostare lì, con le unghie a premere leggermente nella sottile carne del cranio < Non ti sei ancora stancato di giocare con me? Mi trovi ancora- > Una breve pausa, a raccogliere dell'ossigeno inesistente, che neanche gli gonfia le narici < -divertente? > Forse è il suo non volergli lasciare il possesso della propria anima, della propria mente e del proprio corpo. Forse è la sfida a divertirlo così tanto. A pensarci, d'altronde, se sta davvero parlando con se stesso la risposta è presto che data. Sì, la competizione, la sfida. Quel che sempre gli ha smosso le membra anche quando erano più che stanche. Il pensiero di lasciarsi andare lo ha sfiorato più e più volte, ma ci sono troppe cose per cui combattere. E se loro lo hanno dimenticato, la stessa bruciante verità non vale per lui. Ha indosso quei vestiti che gli hanno sempre fatto da biglietto da visita, una camicia bianca, un paio di pantaloni neri ed i suoi calzari, ma non si è mai sentito più nudo che in quella situazione, con quell'essere. E non può far altro che attendere. Una risposta, un segno, magari una resa mossa dalla pietà. Una pietà che non è mai esistita nel suo cuore, non ha mai avuto misericordia per nessuno e questo, forse, è il suo contrappasso.

Il tempo fluisce in maniera bizzarra, si sa; se ci si sta divertendo, se si è eccitati, se si è preda di una emozione violenta e bruciante, par scorrere ad una veolocità fastidiosamente elevata al punto da sentirsi quasi svanire quelle emozioni dalle mani. Se ci si sta annoiando, se si ha paura, se si è tristi, i secondi paiono dilatarsi fin quasi allo spasimo in un incedere talmente lento da far male al cuore. Il tempo segue logiche che probabilmente nessuno avrebbe mai compreso ma mai come in questo momento si potrebbe dire che il tempo paia essersi cristallizzato. Come puoi tenere il conto quando tutto è sempre uguale attorno a te? Quando tutto è semplicemente nero, buio e vuoto? Nulla muta, nulla varia, neppure quei continui e regolari incontri con *Lui*. “Vogliamo giocare?” principia ogni volta comparendo dinnanzi a te con quella solita aria da ragazzino mai cresciuto, la voce acuta da infante che chiosa parole taglienti. E dunque fra loro compare-dal niente, la solita scacchiera. Quante partite avete già giocato? Quante parole sono state dette fra una mossa e l'altra di quel gioco ormai divenuto un qualcosa di meccanico? Bianco. Nero. Nero. Bianco. Avanti. Avanti. Avanti. Pareggio. La tua voce giunge leggera, sottile, un sussurro basso che par quasi sfuggire stanco dalle tue labbra schiuse portando il bambino a sorridere prendendo posto dal suo lato della scacchiera. < La consideri pazzia? > domanda lui inclinando il capo, le dita intrecciate sotto il viso, i gomiti puntellati sulla tavola fra voi. < Non è forse folle colui il quale non ha dialogo alcuno con se stesso? > chiede tenendo lo sguardo fisso nel tuo, osservandoti, studiandoti. < Dopotutto, il nostro io è l'unica persona al mondo col quale condivideremo il resto della vita. L'unica persona al mondo che non possiamo dimenticare. > .. < Che non *può* dimenticare. > sottolinea quella piccola parola con tono sottile, pungente, quasi caricando la voce con una sfumatura amara della voce. Una sorta di tagliente sarcasmo malamente celato: dopotutto quel che v'è nella sua mente è nella tua. Kenbonsho tace, osserva le tue mani levarsi, incastrarsi fra quei capelli d'ombra in una presa esausta. Non si scompone, non si smuove, limitandosi semplicemente a schiudere le labbra in un chiosare serafico e rilassante, quasi accogliente. < Divertente? > domanda il ragazzino inspirando. Espirando. < A dire il vero sei piuttosto noioso. > rivela con un piccolo sbuffo, adagiandosi sulla sua seduta, così piccolo contro lo schienale alto e ampio di quella sedia troppo grande per un bambino. < Ma dopotutto lo sai, no? > continua il bambino tenendo fissi gli occhi scuri sul tuo volto stanco ma non ancora sconfitto. < Non ho mai giocato per divertirmi. La sola cosa che vogliamo è v i n c e r e. Anche contro noi stessi. > C'è mai stato divertimento, nella tua vita, prima? Hai mai giocato per il solo gusto di ridere? Per il solo gusto di stare *bene*? Neppure da bambino, una vita fa, hai mai riso davvero. Cresciuto troppo in fretta, troppo presto. Troppo. Ed ogni sfida, ogni competizione, fatta per il puro gusto di essere padrone della situazione, a capo e comando di ciò che si stava verificando attorno a te. Ogni impresa, ogni missione, ogni relazione: non per divertimento, non per gioia. Per vincere. Per sentirti al comando dopo anni passati nel tempo a non poter controllare ciò che s'abbatteva crudele attorno a te. E lui lo sa. Lui c'era. C'è stato sempre. < Tocca a te. > T'invita, dunque, a muovere per primo. [Ambient personale]

11:52 Azrael:
 L'Oblio. Un solo significante per infoniti significati. Un termine unico per scatenare nella mente del giovane una miriade di emozioni appartenebti allo stesso spettro scuro e negativo, ma allo stesso tempo contrastanti. Rabbia, tristezza, autocommiserazione, ancora rabbia e... paura. Quell'ultima, soprattutto, gli preme sulla bocva dello stomaco. S'annida nel più profondo antro del proprio corpo e si dipana in esso con una tale intensità da bruciare nelle vene ed infiammarlo. Desideri contraddittori e disarmanti di morire e vivere. La Morte che, se lo prendesse adesso tra le sue nere dita, non farebbe che porre fine alle sue sofferenze. Quel supplizio eterno su cui vorrebbe solo incidere la parola "fine". E la Vita, il caldo tepore che anima il mondo, la benzina su un fuoco di cui egli stesso ha sempre parlato. La volontà del Fuoco. Dove l'ha riposta? Si insedia ancora in qualche anfratto dell'anima di quest'uomo perso nel nulla? La risposta, forse involontaria, arriva dalla reazione del proprio corpo alla vista di quella scacchiera. La tavola di legno divisa in quadrati perfetti. Le pietre nere e bianche, quello schiocco sordo che si perde nell'aria ad ogni mossa. E a quella parola. < Noioso? > Ripete il termine lentamente, con pacatezza. Sorride, snudando due arcate di denti candidi, i canini affilati risalyano nella perfezione del suo viso. < Noioso. > Ancora, stvolta più sicuro. Le leve inferiori lo portano alla sedia adibita solo per lui. Le braccia ricadono molli ad accarezzare l'aria lungo i fianchi, poi più certe nel prendere la seduta e scostarla dal tavolo. Vi si siederwbbe, ora. La schiena non tocca la sede ove normalmente dovrebbe, data la posizione. È, invece, arcuata in avanti, i gomiti sul tavolo e le dita affusolate tenute a mezz'aria, intrecciate tra di loro in una posizione che risulterà certamente familiare ad entrambi. < Vuoi vincere? È per questo che giochi? > Principia a mezzavoce, in un fremito quasi divertito < La vittoria è una sensazione meravigliosa, ma- no... > solleva l'indice della mancina ad ondeggiare a destra e a sinistra, schioccando la lingua contro il palato allo stesso ritmo del ticchettio che gli scuote il sistema nervoso < È il dolore. L'espressione contrita di un volto sofferente, la supplica che ne sussegue. Dio-- > Sibila tra i denti in quella che non è altro che ina dimostrazione di puro piacere. Solleva la destra a raccogliere una delle sue pedine di sempre, le bianche. La piazza sulla scacchiera senza un vero e peoprio intento strategico. Lo sguardo color pece si riacvende, riprende nervo e non lascia mai andare l'interlcutore < Se riuscissi a- divertirti, a farti provare qualcosa di nuovo, come ti sentiresti? Ti piacerebbe, amico mio? > Intenerito il tono del Nara, tipico di un padre che parla al proprio figlio, mentre le mani tornano ad intrecciarsi tra di loro, attendendo la mossa dell'altro.

Immersi nell'infinita oscurità di un momento sospeso nell'eterno, giocate l'ennesima partita ad un gioco che non prevede né vincitori né vinti. Entrambi seduti da un lato all'altro della tavola, entrambi chini su di essa con le dita intrecciate sotto il viso, l'uno lo specchio dell'altro. Uno specchio che prende il tempo e lo deforma e lo cambia e ripropone due versioni assai differenti del medesimo individuo. L'uomo che ostenta la sua crescita, la sua forza, la sua evoluzione. Ed il bambino che rimarca quanto abbiano fallito, insieme, nel tempo. Quanto male si sia annidato in loro, quanto male sia fluito sotto i loro occhi, fra le loro dita. Quanto forse tutto sarebbe meglio se, semplicemente, si lasciasse andare la presa su quel filo che li tiene sospesi in quel galleggiare nel nulla. Per un istante soltanto, espirare e... cadere. Precipitare fino a sentire il vento schiaffeggiare la pelle e privarli di ogni cosa, ogni ricordo, ogni emozione. Ogni... timore. Liberi. Nuovi. Dimentichi di ogni cosa, di ogni dolore, di ogni paura. Il capo del bambino s'inclina, i grandi pozzi neri sul suo viso si fissano in quelli della sua controparte mentre le lunghe ciglia infantili vengon fatte sbattere contro le gote morbide, pallide. < Non è quello che cerchi? > domanda Dissoluzione inarcando un sopracciglio. < Ancora menti a te stesso, Azrael? > sospira, annoiato da quella solita, solita solfa. E poi quel dire giunge diretto, schietto, all'orecchio del bambino che, risollevandosi, osserva il Dainin con le labbra schiuse in un brevissimo attimo di stupore. Lentamente, poco a poco, i veli cadono, i segreti cedono. Non v'è motivo -d'altronde, per cui dovresti mentire a te stesso, no? E se forse un tempo non avresti ammesso, non avresti rivelato quanto piacere ti procura la sensazione di provocare dolore in qualcuno, adesso la verità esce fuori, viene a galla, un peso che svanisce dal tuo petto quando quelle parole trovano voce. Accettazione. < E non è vittoria, questa? > domanda Kenbonsho andando ora a mostrare una piccola scintilla nello sguardo. < Quando la loro voce supplica perdono, quando una nostra parola, un nostro dito, può significare per loro Vita o Morte? > continua lui con le labbra a distendersi in un sorriso compiaciuto, soddisfatto, il tono eccitato a quel pensiero--perverso. < Ma no. Non hai capito niente. > aggiunge poco dopo scuotendo il capo, espirando, muovendo l'ennesima pedina in risposta alla tua mossa, procedendo in quel gioco che si protrae fra voi come un elastico troppo teso. < Non è questo che ricerco da te. Ma ancora. Non. Capisci. > Lo sguardo si fa duro, le sopracciglia s'abbassano, s'aggrottano e le labbra si fanno sottili in una linea dura sul viso infantile. < Credi che io desideri vederti soffrire? Che voglia vederti *supplicare*? > chiede contrariato, quasi persino offeso da quell'insinuazione. < Come se non abbiamo già sofferto abbastanza. Come se non abbiamo dovuto già supplicare abbastanza. No. Mai più. > quasi ringhia, quell'espressione da fiera feroce che quasi par sinistra su un viso così giovane, così piccolo. < Mai. Più. > ripete stringendo le labbra, assottigliando lo sguardo. E poi la tua proposta arriva, lo raggiunge e appena placa quel fremito delle dita chiuse fra loro, delle labbra sottili da cui s'affacciano denti candidi e dritti. < Mhn? > aggrotta le sopracciglia, l'infante, fissandoti. < Cosa mi proponi? > [Ambient personale]

14:35 Azrael:
 Una dimensione vuota, quella. La mente di un essere umano non può essere così desolata. Quello, però, non è un essere umano normale. E neanche quello che sta interloquendo con lui. Kenbosho è un demone, un mostro, oppure solo... un'idea? In effetti non è altro che un pensiero, esiste solo nella sua psiche. O se anche è esistito in passato ora non è più. Picchietta l'indice della mancina sul dorso della destra, le mani legate in quella posa così concentrata e rilassata al tempo stesso. Tic, tic, tic. La testa vaga da destra a sinistra, da sinistra a destra. I cappelli seguono il movimento del capo frustando lo spazio vuoto attorno a loro, fili corvini che galleggiano in quell'aria che viene a mancare respiro dopo respiro. Attimo dopo attimo. < Io non capisco. Azrael Nara non capisce. > Pronuncia con minuzia il proprio nome, lasciando che scivoli sulla lingua e fugga dalle labbra sottili e rosee. Lo pronuncia come fosse l'ultima cosa che gli resta. Perché, effettivamente, è l'ultima cosa che gli resta. Nessun ricordo, nessun affetto, nessuna vita. Inizia cantilenando il proprio dire, in tono palesemente canzonatorio < Swi tu a non capire, tu non sei me, qui comando io e- > Una risata, in uno sbuffo sottile < -bla bla bla. > Alza la destra a disegnare dei cerchi immaginari tra i due, tipico gesto di chi ha detto la stessa cosa tante e tante volte ed ora è stanco. Stanco di subire. Stanco di soccombere. Avanza la destra alla scacchiera, indice e medio sull'angolo della struttura lignea. Applica quel po' di forza che dovrebbe bastargli a girarla in posizione diametralmente opposta. Dove erano le pedine bianche, ora ci sarebbero le nere. Di fronte a sé il colore che apparteneva un attimo fa alla Dissoluzione. Muove un suo pezzo tre caselle più avanti, una posizione che non sarebbe possibile prendere, da regolamento del gioco che hanno giocato per tutto questo tempo. < Sono stanco di giocare sempre allo... Stesso. > Si ferma, umettando la bocca secca con la punta della lingua < Stupido. > Ennesima pausa a dare enfasi e corpo a ciò che sta pronunciando < Gioco. > Termina così la sua mossa fuori da ogni schema seguito per quell'infinito lasso di tempo. Lo scandire dell'eternità contato dal continuo, frenetico ticchettio. < Se sei me, se anche solo sei mai stato me, beh, sai quanto la routine mi ha sempre tediato, infastidito ed innervosito. Kenbosho, piccolo Kenbosho... > Osserva il se stesso del passato con un po' di rammarico, una punta di malinconia nella voce < ...usciamo di qui, torna nella mia testa. È quello il tuo posto, lo è sempre stato. > Si getterebbe ora con la schiena contro lo spesso legno della sedia, la gamba sinistra accavallata sulla gemella con la caviglia poggiata sul ginocchio opposto, le braccia a dirigersi oltre la linea delle spalle e le dita, dapprima intrecciate dinanzi a sé, ora unite dietro la testa, coi palmi ad accogliere la nuca del Dainin. Attende, silenzioso, una mossa che rompa lo schema e, chissà, magari uno spiraglio che gli consenta di attraversare lo Stige e l'Acheronte ed uscire da quell'Inferno.

Normale. Cosa è normale? Normale sarebbe- a questo punto di questa lunga partita, capitolare. Normale sarebbe, dopo tanto tempo, arrendersi. Fermarsi. Gridare. Normale sarebbe pregare, spegnersi, dissolversi fino a divenire ombra fra le ombre e semplicemente svanire. Qualcosa che, per il nostro eroe, dovrebbe essere assai semplice, non è vero? Lui che le ombre le piega e distorce al suo comando, lui che l'ombra ce l'ha nel sangue per diritto di nascita. Eppure... eppure. Nonostante il tempo, nonostante il dolore, la stanchezza, persino l'ottenebrante noia, non cadi. Non t'arrendi. Non ti spegni. La tentazione è scivolata suadente lungo la tua pelle, nella tua mente è passato il pensiero di quella così deliziosamente allettante resa. Ma ti sei frenato. Ti sei fermato. Hai combattuto. Aggrappato così tenacemente ad una vita che di te s'è fatta spesso beffe e che di ferite non si è risparmiata. Aggrappato al pensiero di un ritorno, al ricordo di un tramonto, alla mancanza d'un abbraccio. E sebbene stanco, sebbene sfibrato da quell'incessante Toc. Toc. Toc., il tuo animo ruggisce e lo sguardo non si spegne. Rispondi, affondi, attacchi con elegante pacatezza perchè così sospeso nell'eterno nessun gesto estremo ha poi tanto senso: un grido si disperde quanto il più labile sussurro. E Kenbonsho sospira, stanco di quell'infinito gioco, alzando al cielo le pupille sotto le palpebre abbassate, scuotendo contrariato il capo con quel fare così fanciullesco e fresco. < Sei davvero-- > La sua voce però si ferma quando le tue mani vanno impadronendosi della scacchiera. Osserva il tuo fare a labbra schiuse, quella presa di posizione, quel semplice uscire fuori dalle regole e dagli schemi per il puro gusto di sfuggire dal gioco ideato e proposto da qualcun altro. Persino da un altro te stesso. E allora ribalti la situazione, cerchi di dare una nuova rotta a quella situazione, una nuova via a quella discussione. Una proposta, una sfida, l'ennesimo tentativo. Ed il bambino stringe le labbra, stringe i pugni andando ad indurire lo sguardo. < E' questo il nostro posto. Questa è la *nostra* testa. Io sono te. > ripete il bambino con quell'infantile testardaggine poco paziente. < E quale credi che sia il tuo posto? Eh? Non hai più nemmeno una casa! > Lo scherno trasuda acido dalle labbra del bambino, la tavola sparisce e non restano che due figure a scontrarsi l'uno dinnanzi all'altra, seduti su due differenti troni. < Nemmeno una famiglia. Chi si ricorderà ancora di te? Da quanto tempo siamo qui, Azrael? E chi è mai venuto a cercarci? A portarci via? > domanda il bambino fissandoti ora dritto negli occhi, serio, mortalmente serio, alzandosi dal suo scranno con le sue gambe corte. < Katsumi? Yukio? Akendo? > chiede con una risata amara sotto i baffi. < Quell'uomo ti ha voluto al suo fianco, eri forte, eri utile. Ti ha portato via da casa con quell'anello. E poi? Dov'è adesso? Probabilmente avrà soltanto *dimenticato.* > .. < E Mekura? Dov'è Mekura? Puoi sentirla con quel vostro stupido sigillo? Ha invocato mai il tuo nome? > Azrael, Azrael. Sicuramente un tempo deve aver pronunciato il tuo nome, ma... com'era la sua voce? Quand'è stata l'ultima volta? Quando hai sentito, prima dell'Abisso, le sue emozioni propagarsi in te? < No, vero? Perchè avrebbe dovuto? Chi siamo noi per lei? Chi siamo noi per loro?! > Il respiro si fa rapido, il petto s'alza rapido nel suo petto e tu la vedi, la riconosci, la senti... quella sensazione. Il fuoco che s'alimenta sotto pelle, quella fiammata che sale in un istante e brucia e consuma e logora e tinge ogni cosa di rosso. Quella sensazione di onnipotenza e annichilimento ove sopra è sotto e tutto è niente e solo tu esisti e quel prurito fastidioso che solletica le dita. < Niente. Nessuno. Sostituibili, dimenticabili, come un pacco lasciato nella foresta della morte. > Risentimento, astio, rancore. < Non lo vedi? Non capisci?! Noi siamo-- niente. E allora a che serve ripensare ai loro nomi di notte se alla fine nessuno di loro si ricorderà davvero di noi? Se finiranno con l'abbandonarci, con il tradirci o con l'andare avanti senza di noi? > E per la prima volta la fastidiosa e fredda maschera di sdegno e superiorità--si crepa. Uno spiraglio assai sottile di... disperazione? Timore? Paura? Non è chiaro ma tu--puoi sentirlo. Lui è te. E tu sei lui. < Nessuno sarà mai fiero di noi. Nessuno resterà per sempre. Alla fine esistiamo solo io e te. Tutto il resto è solo... nulla. > [Ambient personale]

15:54 Azrael:
 Ci sta provando, ci ha provato rintocco dopo rintocco, giorno dopo giorno e notte dopo notte. Tentativi vani di rendere utili le sue conoscenze da torturatore. Ha percorso ogni possibile strada, ogni metodo, ogni stratagemma. Il poliziotto buono, quello cattivo, l'amico, il nemico. Ha asservito la propria fredda razionalità ed il suo gelido intelletto a quello scopo. Risvegliarsi. Ma sotto quella patina di ghiaccio si celano delle braci scoppiettanti, un fuoco su cui attecchiscono quelle parole. Una in particolare, un nome. Fonemi che si congiungono e fanno mancare un battito al cuore del Dainin. < Non pronunciare il suo nome... > Sussurra a testa ora bassa, gli occhi neri a fissare un punto vuoto nell'ancor più vuoto nulla. Ed ogni sua parola lo raggiunge, chiara e forte. Coltelli ardenti che lacerano il suo animo a brandelli. I muscoli hanno un fremito, sussultano al termine delle parole di quel ragazzino. Di se stesso. < NON OSARE NOMINARLA! > Esclama a gran voce, il viso si tingerebbe di rosso per lo sforzo, per la furia. E-- quel prurito familiare lo travolge, sotto il marchio il petto brucia in quello stimolo così sconcertante, ma così suo. S'alza, scatta in piedi, le leve inferiori che lo reggono a malapena il peso delle emozioni che lo stanno frustando e frustrando. Le braccia lungo i fianchi, contratte e gonfie di rabbia terminano in due pugni chiusi con una tale foga da percepire chiaramente le inghie scavare il palmo e, chissà, se v'è ancora nelle vene del sangue da versare da quelle ferite. < Non mi importa, NON MI IMPORTA! > Sbraita, alzando la testa a fissare con gli occhi in fiamme il suo demonio personale. < Non so che fine abbiano fatto, non so se mi hanno dimenticato, cercato o mi stanno aspettando e tu- Tu! > Gli punta l'indice della destra, tremante, intriso di odio < Tu hai paura che io lo scopra! Per questo mi tieni rinchiuso qui, perché là fuori non è come credi tu! > Rilascia la mano lungo il fianco e si abbandona al suolo, un suolo che nemmeno c'è davvero, che non esiste. Il cuore prosegue imperterrito una corsa che gli fa pulsare ogni parre del corpo, un corpo stanco, ma sfondo di uno sguardo tutt'altro che esausto. È vivo, acceso, infiammato e puntato verso la sua controparte. < Tu sei me, è così? > Non attende risposta, rincara l'astio che trabocca dalle sue parole e ne sputa ancora ed ancora, superando persino il ticchettio nella sua testa < È COSÌ?! > La gola brucia, riarsa dalla vibrazione violenta delle corde vocali che gli stanno consentendo, chissà per quanto ancora, di strepitare a quel modo. Porta le mani alle tempie, si arriglia tra i capelli come all'inizio di tutto quel massacro psicologico, ma in modo così- diverso. I palmi premuti ai lati della testa, il fondo a premere con forza, tutta quella che ha, di comprimere la parte più fragile del cranio < Lasciami uscire o muori con me qui dentro! > Urla ancora, pressando finché non sentirà le ossa incrinarsi sotto la sua morsa. Sta cercando di uccidere lui, uccidendo se stesso. Di porre fine a tutto questo, ponendo fine alla sua vita e se l'altro ci tiene così tanto a restare in vita dovrà lasciarlo libero o veder collassare quel suo piccolo mondo sotto i palmi stretti del Nara. O, almeno, questa è l'idea. Entrambi vincitori o entrambi sconfitti. Una volta per tutte.

L'urlo squarcia il nulla e per un brevissimo istante risuona come tuono tutt'attorno. Persino quel fastidioso, continuo, irritante Toc. Toc. Toc. si placa e null'altro resta se non il riverberarsi del sangue nel tuo corpo a sciabordare nelle tempie, nelle orecchie, assieme al respiro pesante, al suono delle dita che si stringono forte a causa di quel ben noto e familiare prurito. Il viso è paonazzo, sì, il cuore accelera furioso, ferito nel petto e il sangue va alla testa. Basta, basta. Il gioco è bello quando dura poco e questa partita si è protratta forse per fin troppo tempo. Azrael è stanco e le parole del suo io divengono semplicemente insostenibili. Stanco. Stanco d'aver paura. Stanco di temere d'esser dimenticato. Stanco di chiedersi perchè. Ed il bambino, alla fine-- piange. < E tu non hai paura? > chiede ormai sfinito, con le mani lungo i fianchi, morte, e gli occhi neri ricolmi di lacrime d'argento, le labbra tirate su nel tentativo di frenare, forse, un singhiozzo. < La mamma ci ha abbandonati prima ancora che potessimo ricordarla. Nostro padre ci picchiava e per poco non ci ha ucciso. Nostra madre è in carcere con le mani sporche di sangue. Kuricha è morta perchè abbiamo dovuto fermarla. E Mekura-- lei... dov'è lei? > le parole vengono fuori con una voce fragile, rancore e paura si mescolano e confondono in un tono tutto nuovo, straziato, spezzato, rievocando ricordi perduti e altri accuratamente conservati, esperienze che hanno rotto e distrutto più parti di te di quanto non avresti voluto ammettere. < Non è venuta. Non c'è! Ci ha mai amati davvero? O ha scelto noi perchè era l'alternativa migliore? > chiede tirando su col naso, le labbra tremanti di un bambino spaventato. < Tu non hai paura? > ripete allora Kenbonsho, spezzato, scuotendo vigorosamente il capo. < Non ti credo! Bugiardo! > Perchè, dopotutto-- la sua paura è la tua, non è così? < Perchè non possiamo solo-- dimenticare?! > E sebbene voi siate Uno, il vostro cuore sceglie una strada diversa. Rimanere. Scappare. Il bambino è stanco, è ferito, piange di nascosto perchè non può farlo alla luce del sole e vuole solamente cancellare ogni brutto ricordo come fosse un pessimo sogno. L'uomo è stanco, piegato, afflitto, ma animato di forza di vivere. Non vuole dimenticare. Non vuole cadere. Non vuole dissolversi. Azrael Nara è un figlio perduto e abbandonato. Azrael Nara è un bambino trovato e maltrattato. Azrael Nara è un bambino salvato e cresciuto troppo in fretta. Azrael Nara è un allievo diligente, un bravo combattente. Azrael Nara ha le mani sporche del sangue di chi ha amato. Azrael Nara è stato abbandonato. Azrael Nara è il risultato di ogni sua esperienza, è la somma finale di ogni cicatrice sul suo corpo. E gli piace. Azrael Nara è, infine, allo specchio con se stesso. E non ci sta, non ce la fa più: per molto, troppo tempo ha ricacciato quel tormento, per altrettanto -gli pare, ha dovuto affrontare i propri demoni. Ma adesso basta. E' la resa dei conti. Azrael Nara è stanco e vuole tornare a casa. I palmi vengono premuti forte contro il capo, le tempie fragili incassano quella pressione crescente mentre la sua voce si eleva alta, dirompente, in quel nulla soverchiante. Kenbonsho sgrana gli occhi e, impallidendo, corre. Ci vuole poco, il tempo di uno, due, tre respiri prima che quelle manine vadano ad afferrare le tue maniche, il suo piccolo corpo ad impattare contro il tuo, fremente. Tremante. < No, no, fermati, non farlo! > grida spaventato, tirando, strattonando le tue mani dal tuo capo. < Non voglio morire! Basta, ti prego! > piange forte, ansimante, guardandoti in viso. E la maschera cade in frantumi taglienti sotto i piedi. Il ragazzino si rivela per quello che è sempre stato, fin dall'inizio. Un-- bambino. Solo. Spaventato. Stanco. Solo. Quel bambino che conta solo su se stesso perchè degli altri non si può fidare. Quel bambino che ha visto svanire sotto gli occhi chi aveva promesso di rimanergli accanto. Quel bambino che nonostante la sua forza, ha solo una gran paura di cadere. [Ambient personale]

17:29 Azrael:
 La resa dei conti. Una resa dei conti violenta, intensa, dolorosa. Ed il dolore fisico ne è sooo una minima parte. Sentire le pareti della calotta cranica che si scontrano col cervello ne provoca molto, più di quanto una persona normale potrebbe pensare di sopportare. Eppure non è quello che fa più male, non è la pressione schiacciante nella propria testa. Non sono le parole di Kenbosho, di quel bambino che altri non è che egli stesso. È-- riconoscersi. Rivivere quell'immenso dolore attraverso quella creatura così innocente, così fragile. Mascherata da una copertura di superbia e calma fittizia. Così familiare che quasi lo porterebbe al riso. E Mekura, la sua Mekura, dov'è? Non lo sa. Ed il pensiero lo fa sentire spaesato e solo. Una rondine che non vola perché non ha più le ali. Eppure sa che, prima ancora di poter pensare a lei, deve far pace con se stesso. Tornare alla vita come una fenice che risorge dalle proprie ceneri. < Sono stati ingiusti, è stato tutto così ingiusto con noi. > Sussulta al sentire le manine piccole e tremanti afferrargli le maniche, supplicando di non morire. La presa sulle proprie tempie viene allentata, lasciando spazio ad un abbraccio disperato. Ancora sulle proprie ginocchia gli cinge la vita e le spalle, affondando la mano tra i capelli del bambino. < Lo so, lo so... > Sottile, quasi muto il suo sussurrare. Lo tiene al petto, stretto, il mento di ino sulla spalla dell"altro. < Andrà tutto bene, piccolo. Andrà tutto bene. > Le palpebre si chiudono sulle iridi scure e due cristalline lacrime gli solcano il volto, scivolando lente ed inesorabili al suolo. Ha paura. È terrorizzato. La profonda depressione di un bambono cresciuto troppo in fretta che non può che esprimersi in quel pianto. Un singhiozzo gli spezza il respiro ed i denti si stringolo gli uni sugli altri, lasciando scorrere gocciq dopo goccia tutto quel malessere. < Abbiamo paura e va bene così. Accogliamola ed affrontiamola assieme. È così che si diventa grandi. > Quanto ci ha messo per capirlo. Quanto tempo a cercare di combatterlo, quando sarebbe bastato fare quello che nessuno ha mai avuto l'ardire di fare. < Sei stato bravo. Sono fiero di te. Non te lo dimenticare mai. > Lo stringe ancor di più a sé, come se volesse spingelo a rientrare, a rinirsi a lui. Come doveva essere sin dall'inizio. < È il momento di riposare, piccolo guerriero. > Le ultime parole, prima di prendere un profondo respiro, gonfiare il petto di tutta quella sofferenza che tanto stoicamente e stupidamente ha tentato di respingere e poi, finalmente, sorridere.

E' così strano. Di corpi, queste braccia, ne hanno stretti tanti. Le tue mani hanno sentito la consistenza di carni, pelli diverse sotto le dita sottili, tante da non poterle quasi ricordare tutte. Eppure mai come in quel momento quel gesto è parso così... intenso. Quella stretta attorno a quel piccolo corpicino tremante ti dà più forza di quanta ne avresti mai immaginata. Ti senti sbriciolare, cadere in pezzi eppure al tempo stesso non ti sei mai sentito così--completo. Abbracci quel te stesso bambino, quel dolore scacciato e ripudiato per così tanto tempo accogliendo, accettando la sua esistenza dentro di te. Ti imponi come padrone di te stesso e per la prima volta non tramite il sangue, ma con una carezza. E se nel tempo di gente che realmente ha creduto in te ce n'è stata poca, una persona più di altre avevi bisogno di avere al tuo fianco per sentirti davvero imbattibile. Te stesso. Quel te stesso rimasto un bambino abbandonato e sperduto, quel te stesso ferito dal dolore di anni di battaglie e tradimenti. Lo ritrovi in te e lo stringi forte in una presa calma, calda e rassicurante. Kenbonsho si abbandona a quel gesto, piange contro il tuo petto e poco a poco quel suo pianto si mescola e confonde con un altro suono al quale quasi avevi smesso di far caso. Toc. Toc. Toc. Toc... Il battito continua, lento, incessante, ma sempre più lieve. Non più un tamburo che rulla nelle orecchie, ma le lancette di un orologio che ticchettano piano. Lontane. Distanti. La tua voce culla quel pianto, le tue parole sono ricolme di una nuova consapevolezza, di una nuova forza. A volte per essere forti va bene persino cadere. Il bambino tira su col naso, trema fra le tue braccia e si ritrova alla fine a fremere quando quelle parole giungono al suo animo. "Sono fiero di te". E null'altro ha importanza. Mentre stringi e ricacci in te quel lato di te stesso fino a quel momento tenuto a distanza e temuto, qualcosa muta; una crepa. Come un fulmine queste sottili linee bianche emergono dal buio e straziano l'oscurità che fino a quel momento v'ha avvolti assoluta. Come falangi nodose queste crepature d'argento vanno combattendo quell'oscurità fino a quando pezzi di essa non vanno a cadere e svanire. Kenbonsho svanisce, leggero, dentro di te e pesanti come macigni le tue palpebre si trovano lentamente a sollevarsi, stanche. Questa volta non v'è buio, non v'è oscurità e non galleggi. Il tuo corpo è in verità piuttosto pesante, indolenzito, ma concreto, reale. Il viso è umido di lacrime appena versate e nella solitudine di quell'isola da cui sembri non essere mai uscito, la cosa che più ti fa sentire spaesato è l'improvvisa assenza di un fedele compagno. Nel silenzio della notte non v'è più alcun Toc. Toc. Toc.[END]

18:50 Azrael:
 Tutto svanisce così come era apparso. All'improvviso, nel buio è entrato e dal buio è uscito, finalmente. Ed è come se fosse stato sott'acqua per tutto questo tempo ed ora respira. Si sveglia, il volto rigato da lacrime sia secche che fresche, rivoli di sangue coagulato da tempo immemore giù dalle proprie orecchie. Riapre gli occhi, scoprendo con stupore il soffitto di quella camera che per lungo tempo gli ha fatto da prigione. Solleva quei petali d'alabastro sulle iridi scure e piene di ricordi, di commozione. Il busto scatta in avanti ed in quel momento sente il peso di tutto il tempo passato, un macigno che preme sui polmoni. Tossisce, gravosi fremiti quasi lo fanno svenire di nuovo, ma un pensiero è ben più forte di un malessere fisico, per quanto profondo esso sia. < Mekura... > La chiama, sottile e flebile. Batte la mano sul materasso per scoprire solo la forma del proprio corpo scavata in tutto il letto. È smagrito, debole, le forme del viso scavate dalla stanchezza e dallo stress. Chiud3 gli occhi, si concentra sul legame empatico che lo lega alla donna che ama. Un urlo frustrato, il suo nome gridato tra le pareti del cervello, la frustrazione durata per un tempo indefinito. L'amore che non ha mai potuto comunicarle in alcun modo per tutto quel yemp. "Perdonami. Mekura, ti prego, perdonami. Non è stata colpa mia, non avrei mai voluto nulla di tutto questo. Perdonami." Ripete quelle scuse tramite il sigillo e chissà se lei lo sta ascoltando, chissà se ancora è vivodo il ricordo in lei. L'unica cosa che lo ha tenuto sveglio, seppur in un sonno che avrebbe potuto essere eterno. Si rialza a fatica, barcolla e ricade al suolo, ai piedi di quel letto che è stata la sua bara. Tasta attorno a sé, raccoglie la katana che fu regalo proprio di quella che avrebbe potuto essere sua moglie, a questo punto. Si mette in ginocchio, i muscoli che bruciano ad ogni tentativo di movimento. Stringe il fodero dell'arma tra le mani ed alza gli occhi al cielo in un grido disperato proveniente dalla sua gola stavolta, invece che dalla propria mente. Lo sforzo, stavolta, lo strema sul serio, tant'è che al suo ennesino tentativo di rimettersi in piedi cede, in in riposo necessario per ritrovare le forze per raggiungerla. E cadde, come corpo morto cade. [END Sono tornato, bitches.]

Azrael si ritrova, dopo tutto questo tempo, a confrontarsi ancora con Kenbonsho, Dissoluzione, la controparte che non era riuscito a battere oltre un anno prima assieme ai suoi compagni dell'Akatsuki.

Dopo un interminabile periodo di tempo trascorso intrappolato nella sua stessa mente a confrontarsi con se stesso, arriva infine il momento di mettere fine a questa esperienza.
Dopo l'ennesima partita giocata contro Oblio, Azrael arriva ad affrontarlo in una resa dei conti che l'ha quasi portato alla morte.
E' proprio il timore di morire, tuttavia, che lo porta a riunirsi al bambino.

Ambient per permettere il ritorno di Azrael al gioco e chiudere quindi quella trama personale iniziata tempo fa.
Nonostante il lungo periodo di inattività e i problemi che ce l'hanno tenuto lontano, Azrael ritorna in grande stile con una role pulita, chiara e d'impatto.

Data la natura della quest non dovrei assegnare alcun punto, ma vorrei festeggiare questo suo ritorno con un piccolo regalo ♥