K o m o r e b i - [ 木漏れ日 ]
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Giocata del 22/04/2021 dalle 00:07 alle 02:44 nella chat "Luogo Sconosciuto"
[Vetrate] Ha allontanato la mano dal proprio corpo fino a sentir una tesa ed arsa morsa affliggerle la spalla; la rimembranza di una notte di follia le dilania il petto facendole cadere il profilo dell'ammasso di falangi che ricostruisce la fiancata della mano rea di violenza inesauribile di aver desiderato distruggere un vaso di fiori calpestati e bruciati, o forse sgualciti. /Sarebbe meglio che tu non li veda/. Ha voluto così tanto donargli qualcosa incapace di morire, forse nella pietosa speranza di dargli l'illusione d'aver qualcosa di meraviglioso - e mai realmente momentaneo. Il tonfo sul legno del tavolo sancisce la fine d'un momento che forse non è mai veramente esistito. L'affanno. Il respiro sporca le labbra sanguigne - mescola le lentiggini sul viso, il petto gracile. Oh no, aspetta - devo aver sbagliato a scrivere. Ho invertito i momenti, o forse il cinematic trailer d'un film che non vorrebbe mai vedere nessuno è partito dalla metà di una parentesi. Sono appena scoccate le quattro e un quarto - da qualche parte nell'appartamento il canto delle lancette sembra voler risalire il nylon posato a proteggere quella poca mobilia di cui Fuji si fa' vanto. Degli enormi sacchi neri sembrano spigolosi cadaveri di cocci e polvere. Le pareti sembrano così tristi ora che nessun ligneo e fallace corpo le adorna, dal tetto - agli angoli. Il sapore di Fuji scorre tra le mattonelle - ed al tempo stesso, l'ordine improvviso - snuda il suo luogo sicuro di quella personalità che lui vanta tanto di non avere. E allora perchè questa casa, adesso, non sembra più nemmeno la sua. Avrebbe dovuto arrivare prima. O forse, se si dovesse soffermare a pensarci - non sarebbe dovuta arrivare affatto. Va bene così. E' passato tanto tempo, incredibile, non è vero? S'è presa del tempo prima di scrivergli - prima di farlo correre a casa, da lei - da quelle latte di verniche che ora posano su un quadrato quattro per quattro di celofan - lo stesso che copre i suoi tavoli da lavoro e delle intere montagnette di marionette mai iniziate. O mai finite. O mai sfruttate. Quanti corpi senza nome, in questa fossa comune? Le gambe di Nene sono autostrade di carne coperte da calze di cotone elasticizzato - l'aria trasandata di chi non vorrebbe esser guardata. Di chi non ha perso tempo a sceglier i vestiti migliori - dopo aver lasciato il lavoro ed esser andata a cambiarsi e riporre la sua divisa. I capelli raccolti male in un bun basso - di quelli che lascia ciondolar delle ciocche corvine lungo la fronte - le gote - le guance. La doccia trascinata dentro sembra un bronzo di riace impalato. Un po' sciocco. "Ho voglia di bevanda all'uva, me ne prenderesti una mentre rientri a casa? Ah si, sono da te. Ti va' di venire?" Lo avevano detto, è vero. Aveva pensato che sarebbe stato meglio fare questo lavoro senza di lui. Poi ha pensato anche che poteva sentirsi non preso in considerazione. O forse privato del suo spazio personale. Sarebbe stata una mancanza di rispetto? Ah, non le interessa davvero. Tutte le vetrate aperte la fanno sentire sospesa nel vuoto - e la corrente che tira tra loro e la porta d'ingresso aperta - le smuove una maglietta oversize grigia addosso minacciando - perennemente, di mostrar la curva di troppo. Non succede mai, tranquilli. In balia - ci piacerebbe pensarla così. Ma a dire il vero ha i piedi nudi ben saldi a terra - le scarpe sono lì, all'entrata. Come la vecchia vasca di Fuji. Oramai in mille pezzi. Le pareti son per metà ridipinte - i bordi, almeno. Un colore caldo - che lo faccia sentire bene. Un ocra. O qualche tonalità simile. In piedi, in bilico - ah forse questo tavolo non può reggere bene. Cigola. Ma non cade, non adesso. Tutta allungata verso la parete adiacente ad una di quelle vetrate. Basterebbe lasciarsi andare per volare ma-- oggi il tempo non è dei migliori. Si sente un po' bene. Un po' a casa. E questo le da' fastidio. [ck off] Fuji, non ti trema un po' il cuore, per la prima volta? Chiede il suo riflesso, con un sorriso tenue, spingendolo a sfiorarsi il dorso della destra con la gemella. L'amico di fronte al riflesso del metallo della sezione bevande rimane taciturno, ma lo segue costantemente con lo sguardo. Un po' pallido, pensieroso. La luce per altro arde in maniera un po' invadente, forzandolo ad adunare negli occhi tutte le ombre possibili, dai cigli alle ciocche troppo lunghe. Il mento è un poco reclinato, fissando lo schermo a malapena luminoso del suo telefono, impuntato su un messaggio ricevuto pochi minuti fa. Con qualcosa di così vago gli è stato blandito lo spirito in maniera delicata, avvolto da una lusinga informe. Ah, quanto vorrebbe mostrarsi sdegnato. Per nulla inebriato, coinvolto. Per nulla ilare. Ed invece, eccolo: tutto vestito e frescamente illuminato dagli occhi sorridenti. Le labbra permangono neutre, mentre col bastone da passeggio si spinge ad ampie falcate in avanti. Quasi celere, per la sua media, uscendo dal konbini per ritornare al grande palazzo. Gli occhi si spostano sul centro dell'Oasi, fissano quel laghetto artificiale circondato dalla sabbia e ci si ferma a lungo, vivendo speculazioni riguardo l'Arte che ha ciecamente abbandonato ad un'anima privilegiata. No, non è semplicemente questo. Non ha mai perso l'Arte. E' straripata. Come se avesse riempito un calice fino all'orlo. La folla nera e densa gli passa davanti, con un rumorio confuso di sottofondo non tanto dissimile al proprio udito dai rumori prodotti dalle conche marine. D'un tratto, passati forse venti minuti, risponde. "sto arrivando" senza punteggiatura o maiuscole, un messaggio all'apparenza pigro che già trattiene sapori. Le carni sono state nuovamente vestite diversamente, nulla di nuovo, niente di che. L'addome è vestito da una giacca in stile blouson in lana, aderente e con una singola zip a chiusura nascosta. Di color rosso scuro, come vino a fondo di un bicchiere, abbinata anche al pantalone e alle scarpe. Il bastone della Shirasaya s'abbina e va in contrasto con una serie di crisantemi incisi ornati d'oro. Ha un sapore strano, vestirsi diversamente. Ed è curioso come il suo vestiario gli dia un'aria ben più estroversa di quanto voglia davvero. Inoltre, ha un accessorio. Al polso della mancina è appesa e penzolante una busta nera opaco dalla quale traspaiono diversi tipi di bottiglie e lattine. Lattine di soda violacea, all'uva. Brick di cartone contenenti succo d'uva. Ed un distillato Soju aromatizzato all'uva viola. Almeno tre unità di ognuna. Poi, la silhouette di una scatola rettangolare. Di fronte alla possibilità di doverla chiamare per chiederle cosa preferisse, ha scelto tutto ciò che ha potuto prendere. Non che volesse realizzare alcun particolare favore. Suonava semplicemente corretto, andarle incontro. Starà ordinando casa, no? Ci ha messo un sacco. Solleva un po' la sinistra, premendo il bottone per l'ultimo piano e poggiando la schiena alla parete dell'ascensore. Fissa il riflesso nel largo specchio presente, piegando un po' il capo di lato e finendo per sistemarsi lungo il percorso cinque ciocche sui lati, liberando gli occhi. Il bastone normalmente anticipa largamente il suo arrivo, ma oggi invece che battere vien delicatamente poggiato sul pavimento di fronte a lui. Gli occhi cadono sulle scarpe presenti all'esterno, poi sulla vasca a pezzi. Si ferma per un istante, chiude gli occhi, ingoia un nodo di saliva, poi procede. Si affaccia all'interno con passo appena più pesante, udibile se non si è concentrati su altro. La sua analisi parte dalle pareti mezzo lavorate e va terminando su di lei, in bilico sul tavolo cantante. "Sono a casa." Il tono è debole, con poche flessioni, in effetti: tipico. Sembra quasi una frase di routine, nonostante non lo sia. "Ho preso un bento del 7/11, per dopo" Gli occhi si puntano sul tavolo, sui piedi nudi, quasi immediatamente si spostano sugli ampi vetri aperti. Il vento soffia impervio, così in alto. "Non cadere" Sia mai fosse sua intenzione farlo. [Vetrate] Forse è il freddo che le carezza la pelle - forse è che il tavolo effettivamente non poteva reggerla in bilico ancora per troppo tempo. Un urlo ligneo lo fa' scattare indietro, e lei sembra vacillare nelle braccia del vuoto. Gli occhi s'aprono un poco, le labbra hanno il riflesso d'un respiro mancato. Ingoiato. Dimenticato lì, a mezz'aria, e forse poi caduto a terra nel nulla. Una riga stona dal coro, da quel coro sembra susseguirsi in modo maniacalmente corretto. Omogeneo. Asfissia l'ordine fino a stringerne il controllo tra le dita. Ed ora c'è una linea obliqua, sbavata, stortina - e qualche schizzo di vernice ha raggiunto il pavimento lì dove non c'era il cellofan. Ah. Che cazzo. " Aish - " Un verso scocciato le rompe quel cuoricino di carne che ha per le labbra - lasciando che la cornice della porta la inquadri imbronciata, ad inveire contro il vuoto - macchiata di vernice colorata un po' ovunque. Almeno si riassesta sul tavolo - muovendo qualche passo indietro. Non mi fregherai di nuovo. Poi comunque spera che Fuji abbia letto il messaggio. Guarda fuori dalla finestra. Luogo errato dove guardare, infondo non dovrebbe cercarlo alla porta? Forse non sta cercando Fuji, ma solo la posizione del sole - che ora pigro batte verso una strategica ritirata. Almeno ha finito qualcosa, alla fine. Ha dimeticato i fiori. I fiori sono per gli amanti, non per gli amici. Non vuole più comprarglieli -- anche se un po' se la sent-- no, parliamo d'altro. Ciglia ricurve adombrano mezze lune come lastre di ghiaccio dentro cui il nero si staglia - meraviglioso e immenso. Un po' come Fuji. Quando lo vede le labbra rimangono schiuse. Parla, stupida. E' solo un invertebrato, ti ricordi? Non è così bello come lo vedi. Non è un eroe. Ah, è difficile. Ha reso piccola quella sbavatura che l'aveva vista imbronciarsi, inveire - stringere i denti. Voleva davvero vederlo. Chissà se lui - nah, zitta. "Se cadessi, ci saresti tu a prendermi. No?" Assorto, per un attimo - risponde a qualcun'altro. A qualche pensiero partorito dalla sua testa. Cadere? Sarebbe bello, ma non oggi. Non è il tipo da rinnegar il gande atto finale, o temerlo disperatamente - solo che ci vuole l'attimo giusto. La sequenza giusta. Fare clamore - disperazione - e poi grande chiasso. E finire, solo dopo, nel silenzio d'un tiepido sole che le bacia la pelle. In realtà il soffocarsi di quello sguardo dietro le palpebre è più celere di quel che potessimo immaginare. Il suo rinnegare, rendersi bendata - figlia dell'estetismo d'un idea. Nemmeno un immagine. Le ginocchia volte verso di lui sembrano prostrarsi al tavolo, per poi vederla balzar giù da quel rilievo posando la mancina libera contro il bordo. Passi. Plastica. Quella linea l'aveva assorta tanto da ingabbiarla in un turbinio di pensieri e flash. Avrebbe preso a colpire il muro con il rullo se solo non fosse arrivato. Falangi come tocchi di sole - di un raggiante quanto mansueto colore che la risagolgono senza coerenza alcuna. Quando riapre gli occhi verso di lui, è solo per inquadrar dall'alto il contenuto della busta. Come una bambina curiosa. "Cosa c'è dentro?" Al bento s'intende. E poi, sottointende che ceneranno assieme. Ah, questo la fa' stare bene. E anche un po' male. O forse, a conti fatti, non ha voglia di porsi alcuna domanda. Le labbra tornano a romper le righe del silenzio mantenuto fino ad adesso - dandogli le spalle ed indicando le pareti già finite - le poche vicine alle vetrate a dire il vero. " Ho scelto un colore che s'abbinasse alle marionette. Ho pensato che questo ti facesse sentire bene. Sono stata scontata, avrei dovuto chiederti un parere... Forse. " I piedi si muovono in silenzio, le caviglie ossute si curvano di tanto in tanto ad innalzarla sulle punte ridonando un aspetto decente a quel putiferio. Non guarda mai verso i fiori - è paradossale. E alla fine non ne ha nemmeno comprati. Si sente in difetto. Lui ha preso il bento. E se Fuji avesse voluto i fiori? Ah, no. A Fuji da' fastidio quando Nene è troppo /qualcosa/ o gentile, o carina. L'avrebbe odiata. O forse gli piacerà farne assieme. La porta aperta sullo sfondo è protagonista di silenzi. Di nessun mostro dietro ad attendere. " ... " Un sospiro le smuove il petto occultato dal danzar d'arricciamenti e vento, finendo la base della parete. Quel mostro non si vede più. Quella virgola fuori dal coro. E quando lascia cadere il rullo a terra - son solo le mani a donar colore a tutto. Ne allunga una, con i polpastrelli verso il viso di Fuji. Cercherebbe di sporcarlo d'arancione. Zitta. Lo fissa. Come se lo avesse appena picchiato. O preso in giro. E invece lo avrebbe carezzato, disegnandogli un baffo sulla gota. "..." ... "AHAHAH!" Come osa ridere così leggera? Non pensa a quanto è errato godere di qualcosa che non t'appartiene? Fino a rendersi gli occhi lucidi - e tamponarsi una gota con il metacarpo della mano, piegandosi appena sulle ginocchia. "Svestiti Eiyuu, fammi vedere che doccia hai preso. Spero sia grande, quelle piccole - uhm. Sono terribili." E lei lo sa' bene. Un nuovo clamore, più forte, si leva tra i suoi occhi quando intravede le forme rinnovate dell'appartamento. Gli risale alle narici l'odore pungente della vernice, ed i colori nuovi confondono lo sguardo, portandolo a viaggiar ovunque fino al tornare alle finestre aperte, per potersi disperdere nella lontananza del crepuscolo. Imperturbato, nei gesti, continua ad assistere e ascoltare come se fosse ad uno spettacolo. Attende un segnale, temendo di rovinare lo spettacolo. Poi, una domanda. E' tutto ciò che basta, per fargli sentire il sangue scorrere nelle vene con più veemenza. I pensieri s'infiammano come per l'imminenza del delirio. E tace, qualche secondo ancora, vittima non dell'indecisione ma di un silenzio espanso e prolungato. Incerto. L'ha detto davvero? O sta ancora vivendo uno di quegli strani episodi? Ha imparato a conviverci, ultimamente. Non è più così fastidioso. Forse aveva solo bisogno di uscire fuori dal villaggio. Forse non gli serve neanche risponderle. Per quel che vale, poi. "Cadremmo assieme. Cadremo." Sembra correggersi come se stesse facendo un qualche tipo di previsione sul futuro, sentendo e vedendo quel mistico cappio attorno al collo di lei, collegato al proprio collo. Sente come se stesse provando ad inseguire il corteo di una Stagione defunta. Ed attraverso le palpebre diafane e lo sguardo molle finisce per sorridere spontaneamente, trovandosi a far sgorgare un po' quel che era perso nei pensieri. Eppure, nonostante il pessimismo di quel dire, conferma il dubbio retorico. Conscio di tutto, cadrebbe volentieri. Un sacco degli elementi all'interno di questa vecchia officina, o casa, gli lasciano un senso d'amarezza largo. I progetti abbandonati e quelli mai iniziati. I fiori. La vasca. Nene. Si ritrova ad incurvare un poco le labbra in senso negativo. Il silenzio è lungo, ma il contenuto della busta fa da salvatore. Il bento. Spingendosi col bastone raggiungere la più vicina superficie, poggia la busta ed estrae la scatoletta del Bento, senza aprirla. La osserva due o tre secondi, prima di osservare Nene, specialmente dove la pelle è stata presa da vernice e colori. "Gimbap" pronuncia prontamente, essendosi accertato quasi esclusivamente di questa prima caratteristica. Il viaggio al supermercato è stato strano. Batte le ciglia, scacciando i pensieri e proseguendo "Anche altre cose credo, come uova" E la roba da bere, che viene poggiata ed allineata sul tavolo. Fissa la soda, poi il succo ed infine il Soju, indeciso. Con una gocciolina di sudore al lato del viso ed entrambi gli occhi incerti che s'alternano tra lei e i prodotti acquistati. Che bere, Nene? La supplica è implicita, ma breve, affiancandola per osservare le pareti in corso di presentazione. "Va bene" annuisce un paio di volte, neanche certo di star ricevendo un qualsiasi sguardo. E prosegue. " E' un bel colore" Rafforza il concetto, mettendo il bastone davanti alle gambe e poggiando sulla punta prima il palmo sinistro e poi il destro, creando un sostegno sul quale bilanciare tutto il corpo, piegando un po' in avanti il busto. Il silenzio che segue è lungo, grave. Non saprebbe romperlo da solo. Qualsiasi cosa voglia dire gli muore addosso e ricade dalle corde vocali allo stomaco, producendo uno stridio strozzato. Poi, il rullo cade. Il mento s'inclina per osservarlo e prima di rendersene conto viene sfiorato al viso con la tinta, sporcato. Sente la freddezza di quell'impasto attaccarsi alla pelle. Lungo silenzio, come se fosse diventato una statua con un buffo baffo. Risolleva il mento, fissa Nene. "..." Lei ride, lasciandolo attonito. L'eloquenza delle sue espressioni rivela la sorpresa provata. Le labbra semi aperte attendono che il cuore trasfiguri le sensazioni in suoni, ed i suoni in parole. E' piacevole. Tanto che andrebbe a passare indice e medio della mano destra dove è stato sporcato per recuperare un poco di quella tinta ed utilizzarla per disegnare su Nene un appuntito basettone. al lato destro del viso. Lento, per altro. Così tanto che in corso d'opera sente una fiamma passargli sotto il viso, arrossandolo e facendolo poi accelerare, per poter abbassare gli occhi il più in fretta possibile verso i piedi altrui, scalzi e sporchi di tinta. Già in difficoltà, viene chiamato Eiyuu. E di riflesso il dorso sinistro si porta di fronte a naso e labbra, coprendo l'espressione generata negli istanti a seguire. Ruota un po' il viso, dandole il profilo, cercando di distrarsi guardando altrove. "Aiutami" pronuncia, facendo scivolare le maniche della giacca dalle spalle e ruotandole perché l'indumento gli cada sui fianchi, in concomitanza ad un leggero arcuarsi della schiena. Il bastone viene poggiato sul tavolo vicino. "Volevo parlarti. Ma non è importante farlo" .. " ora." [Vetrate] Ah, lo ha fatto davvero? S'è fatta minuscola - con il metacarpo curvato tra nasino e labbra. Gli mostra il palmo maculato tra bianco e arancio - tra polpastrelli e unghie dal profilo lungo e pigramente affilato. Dita affusolate. Il riso l'ha mossa con un intangibile violenza, come un maremoto ed al tempo stesso un flebile raggio di sole che s'allunga verso l'interno di questo spoglio loft che sembra riprendere colore. Attimo dopo attimo. Ricostruirsi. Cadremo. Il riverbero del suo correggersi le attanaglia la cervicale come farebbe il soffio gelato tra capelli bagnati. Fastidioso. Malevolo. Cadremo? Ah, che visione pessimistica. Eppure cadere non sembra spavendarla, o forse la verità si nasconde in una realtà ovattata dall'impulso. Dall'esser egoista ed affamata. Dalla necessità. Non siamo tutti un po' così? Ad ogni tiro di sigaretta, ad ogni sorso di birra. Non siamo coscienti del male che ci facciamo? Eppure. Sentirlo dire da lui con una leggerezza così immane, la porta a credere fermamente a quanto lui per primo sia disinteressato al dolore che la caduta potrebbe provocare. Però la prenderebbe, cadendo, la prenderebbe. Non importa, Fuji. L'importante è essere assieme, nella caduta. Il suo riso screma migio, mentre l'ultimo freddo sole le gioca scherzi sulla pelle danzando in quello schizzo di tempera leggera che sono le efelidi. Forse distratta. Forse caduta beceramente nel suo gesto e nella sua idiozia infantile. Il gelo della tempera sulla pelle tiepida per via del continuo movimento di poco fa' - la porta a zittirsi e spalancare appena gli occhi. Oh. Anche Fuji quindi è capace di fare queste cose divertenti? Le ciglia sfiorano la palpebra superiore per lo stupore - lo stesso che lui ha avuto nel vederla ridere. Le dita appena allargate, come se avesse timore di sporcare qualcosa oltre a se stessa - issate nel vuoto che le si staglia davanti. Non s'è accorta. Non s'è accorta dei suoi pensieri, di quanto rumore stiano effettivamente facendo. Non s'è accorta di quanto forte possa battere l'esile cuore del marionettista. Non s'è accorta di quel bento, di quanto abbia cercato di renderla felice. O forse si chiama attacco di panico e necessità di non sbagliare? Uhn, non è anche questo un tentativo di darle rilevanza? Il riflesso di una lei un po' più simile al signor Kazuma le fa' curvare il capo alla volta della spalla - guardandosi distrattamente e con un cipiglio ilare che le dilania il viso. Il vacuo riflesso dell'iride invece si rivolge alla schiena di Fuji. La giacca. Aiutami. Ci pensa poco prima di pulirsi le mani sulle cosce - muover quelle gambette dove le calze sembrano litigare con la gravità e con la carne che pizzicano creando una pigra conchetta nella pelle. Appena visibile. Come un quadro astratto i polpastrelli macchiati disegnano sui lati delle cosce righe che non conducono da nessuna parte - ma sotto quella maglia. La stressa che le scivola addosso, che si alza appena mostrando i fianchetti delle natiche e null'altro. Un marginale danzare tra assolutamente tutto, ma anche assolutamente nulla. I piedi si muovono sul pavimento, la riconducono a lui. Ed ora che può vantar delle mani pulite, tenterebbe di allungarle a far scorrere meglio la giacca - far scivolar fuori le braccia. Prima una, poi l'altra. E' un bel colore, del resto, l'ha scelto pensando a lui. Non a se stessa. Anche se avrebbe scelto lo stesso colore. " Non è il momento migliore ? " Perchè? Perchè non adesso? Le ciglia basse su quel che fa' sembra permear di rispetto il proprio movimento alla volta di Fuji. E' attenta. Non deve esagerare. Non deve fargli male. Non deve dargli fastidio. Non deve fargli credere di starlo aiutando. Ah, pensa di meno. Le labbra si premono appena, i fianchetti si muoverebbero ad appoggiar il ventre al suo fianco - bloccandolo passivamente tra lei e il tavolo. Un movimento fluido ma comunque, assurdamente stabile. Assurdamente, incoerentemente vicina. Sta pensando ancora a tutto questo bisogno di parlare. E di cosa? Ah, spera niente di serio. Però lo guarda, dal basso, spingendolo piano per far si che si svesta da solo - se vuole rimanere in canottiera. Piega la giacca però, le fosse rimasta in mano. Spalla contro spalla, poi in quattro, contro il tavolo. Dall'altro lato della shirasaya. "Possiamo parlare mentre montiamo la doccia. A meno che tu non voglia dirmi di andarmene. In quel caso dimmelo prima, così ti lascio con la cazzo di doccia imballata." Dispettosa, forse. O forse perchè almeno non ha casino in giro. O forse perchè sa' che lui non sa montarla, quindi - finirebbe per rimanere lì. Impalata in mezzo al loft-officina. Lo stesso ventre che lo ha spinto contro il tavolo ora allenterebbe la presa, sempre che fosse riuscito - allontanandosi appena da lui. Gli offre il palmo, come a spingerlo ad allontanarsi dalla superficie che lo ha tenuto stabile fino ad adesso. Spingerlo a fidarsi di lei - e solamente di lei. " O forse... " Divaga. L'espressione serafica tra le efelidi allunga il proprio sguardo nel pece immenso di quello sguardo a tratti spento, a tratti innaturalmente frizzante. Il nero che non riflette luce sembra disperdere il suo tentativo d'infastidirlo - eppure - eccola camminare all'indietro verso l'imballo della goccia pilotandolo a se. Lontano da ogni sicurezza, da ogni sostegno, da ogni aiuto. Se non le sue mani. Una fisioterapia implicita. O forse la sfida di fidarsi l'un dell'altro. Di ripagarsi. E forse la linea arancio sul proprio viso, non dissimile da quella di Fuji ora più sbavata - la rende meno mefistofelica. " O forse " Rimarca il tono, migio e sporco di raceudine assurdamente femminile " volevi fare altro, prima? " Il disordinato ammasso di fili dei suoi pensieri viaggia e occupa i larghi tempi che scorrono tra uno sguardo e l'altro, tra una parola e la successiva. C'è qualcosa di estremamente tedioso nell'attesa degli eventi imminenti. Con quale tecnica dovrebbe ingannarsi per rendere questa sofferenza meno breve? Ogni pausa della voce empie lo sguardo di una confusione malinconica così densa dal farle prendere forma materiale, leggibile e interpretabile in maniera corretta da pochi. Le labbra si piegano in giù, quasi come se la pittura delle basette di Kazuma le avessero fatte appassire. No, dai. Le basette di Kazuma-san sono strane ma non lo renderebbero certamente triste. Lui però ne sarebbe in grado, se solo si impegnasse abbastanza. Scuote appena il capo, movimenti minimi, ridando a lei attenzione e fissandone gli occhi quando questi reagiscono con sorpresa al proprio fare. E' stato così strano? Apre la bocca, con la domanda che gli muore tra le labbra. 'E' strano?' Chiede il labiale, senza essere accompagnato da alcun suono. Forse non le piace essere associata al Signor Kazuma. Ma in qualche modo, stranamente, lei e il Nara sono tra gli individui verso cui sente le sensazioni più simili. Seppur in proporzioni differenti ha preso da entrambi qualcosa di importante e tutt'oggi ne fa un importante tratto del se. Inutile pensarci. Abbassa gli occhi, distratto, in orario perfetto per veder l'altra sporcarsi e giocare con la tinta sul suo stesso corpo. Segue le linee senza proferir parola, anzi, spostando un po' il viso perché quella scena faccia parte della sua visuale periferica, come se davvero gli importasse di più dello scenario fuori dalla finestra. Sente la giacca separarsi da lui come muta per una serpe, lasciandolo un po' più esposto. Non è il momento migliore? Annuisce, voltando il capo su di lei. "Sì. E' il momento migliore." Annuisce un poco, irrigidendosi e rischiando di perdere l'equilibrio quando toccando dal ventre della Doku. Il peso si perde e distribuisce brevemente sulle ginocchia, che reagiscono con un debole tremolio; ma infine, la tensione viene scaricata tra le due entità che lo bloccano e sorreggono. S'impegna a ignorare quella debolezza del fisico, velandola tra i lunghi cigli e le palpebre un po' abbassate sugli occhi. Che fortuna, avere occhi così difficili da leggere. Odierebbe trasmettere troppo. "Per questo volevo evitare." Chiude il periodo a distanza di pochi istanti da quella breve perdita d'equilibrio, coperto dalla canottiera, rivelando in ogni suo dettaglio il braccio sinistro meccanicizzato. Un'opera d'arte ed una vergogna, contemporaneamente. Qualcosa per cui prova sentimenti contrastanti, come ogni creazione che non appartenga alla sfera dell'umano e del reale, similmente ad Aozora. Una gocciolina di sudore gli cala lungo il lato del viso di fronte all'aggressività altrui. Prova però un senso di freschezza, nell'udire gli sproloqui di Nene. Portano un po' il suo timbro. Quello che gli è piaciuto tanto imitare. "Non volevo ferirti, quel giorno." Pronuncia quelle parole rifacendosi ad un episodio che gli è ancora difficile ricordare nitidamente. Quei tre giorni, due, o quattro che erano.. Son convulsi. I più strani certamente della sua storia recente. Il punto di partenza per qualcosa verso cui non sa se essere grato o eternamente offeso. "Sono le cose che hai scritto." Pronuncia, incurante, come se il suo parlare non fosse che un condimento per le azioni in corso. La mano di carne s'allunga, esita un momento prima di entrare a contatto con l'altra, poi l'afferra. E a quell'arretrare lento non può che decidere se lasciarla andare o provare a seguirla. La risposta l'ha già data, prima. Un passo, due. Completamente concentrato sulle mani che sostituiscono il ruolo del bastone, o della carrozzina. "Le cose che ho scritto. E visto" Le cose che hanno fatto. Ma quel pensiero sfuma e viene manifestato solo dal sollevarsi degli occhi, affidandosi completamente alla concentrazione altrui per mantenere stabile il proprio baricentro. Intento negli occhi e nei gesti. "Sì" Senza spiegarsi ulteriormente, senza estendere il significato di quella sillaba. Volevi fare altro? Ovvia retorica. "E comunque" ... "Ho /visto/ Nobu." Enfasi sul vedere. E' chiaro che non si riferisca al solo senso della vista. [Vetrate] Di cosa stai parlando? Interpretare. Interpretarlo. Se Nene fosse il lettore d'un libro sconnesso sarebbe capace d'infuriarsi con il suo scrittore, impuntarsi - levarsi isterica ed urlargli addosso di spiegar le proprie parole in modo da non sentire la necessità di rincorrerlo. No. In quel frangente, a quelle labbra, scosse solamente il capo per rispondergli con una nonchalance disarmante. Dando un importanza tanto bassa a quell'attimo - da renderla una nota sbiadita tra miliardi di colori totalmente differenti. Il collo tra le ciocche nere s'è mostrato, così come il profilo schivo e incuriosito alla volta di qualcosa di mistico nella luce. La stessa che nel crepuscolo sembra elevarla alla follia di una donna che non è - o che è a tratti alterni. Pericolosamente. Sì, è questo ad esserti piaciuto. Ad averti spaventato, attratto, piegato, sollevato. Deve esser un sentimento strano, e per questo, se ne fa' un cruccio invisibile agli occhi dello scrittore - del lettore, e dei nostri protagonisti. Se solo le sue labbra saprebbero parlare nel modo corretto, quante cose vorrebbero dire. Quanto vorrebbero rincorrere l'egoismo di danzar nei discorsi con monosillabi tanto letali. Che figlio di puttana. Il suo palmo lo accoglie e la premura di guidarlo ha la disattenzione di porre ambo i piedi a salvaguardia di quelli tremanti ed incerti dell'altro. Non sa' leggergli l'anima. E' difficile. L'empatia è un talento sopraffino e la comprensione, oh - la comprensione è per la anime nobili. La linguetta consola i petali sanguigni in un fugace passaggio, destreggiandosi nel suo guidarlo a se - e a sua volta, verso quel costrutto che è la doccia. Deve essere difficile. E deve star impegnando tutto se stesso. Però si spoglia di pietas nel suo sguardo, non ne ha per Fuji. La pietà è terribile e si da' ad un cadavere, o quello che tu crederesti tale. E lui non è forse stato elevato, dal suo stadio larvale? Agli occhi della salamandra, di questo giovane veleno - c'è il rinnego di un effettivo problema. Un rinnego di un messaggio ricevuto - e poi di essersi lasciata /guardare/ da Fuji. Osserva i suoi piedi. Le sue ginocchia tremare, certo, ma muoversi. E' questo l'importante. Come la mano di carne stringe la sua - così delicata, così assurdamente incurante della vita altrui. O forse è proprio l'importanza d'essa ad animarla così spietatamente? "Il mio nemico non ha un viso o un nome. Non usa armi. Non può farmi male. O forse può uccidermi." ... " Tu non sei il mio nemico. " Non mi hai fatto male. E forse scusa. Che sentimento è questo? Vergogna? Disagio? Le labbra schiuse sembrano riverberar del taburellio del cuore. La volpe che cerca una via di fuga. I polpastrelli sulla sua pelle lo sfiorano, lo tengono con una fermezza immane. L'altra mano, invece - verrebbe sollevata. Attratta come una falena da una luce artificiosa che replica tanto fedelmente il suo amato sole. Mi ricorda qualcuno, a te no? La man gemella vola a quell'arto meccanico, quell'arte - tanto discussa, così poco compresa. Si poggerebbe sul bicipite ferreo, o di qualsiasi lega sia esso fatto - risalendone le fattezze con i polpastrelli. Le fa strano pensare come esso non senta questo tocco. O forse si. Può vederla spiarlo, cercare di comprenderlo. Distrarsi come una sciocca dalle sue parole come se Fuji si fosse messo nella posizione di fare o dire qualcosa d'estremamente scomodo. Assorta. Innamorata. Non di lui, paradossalmente, di qualcosa di suo. Non è meraviglioso? Gelido. Accurato. Deve essersi impegnato tanto per riprodurre qualcosa di così funzionante e così meraviglioso. Quelle mezzelune d'oceano sembrano ridursi a corone - lì dove il piacere visivo inonda la pupilla. La dilata. Sommerge tutto, compreso lui. Naufraga nei pensieri e nel desiderio di non ascoltare, emettendo un rumorino dalle labbra. " Uhn... " Ah, il preludio della fine? Vuole smettere. Vuole che lei la smetta. Se solo non la fermasse quel braccio, si leverebbe a cercar la giuntura tra ferro e carne. Curiosa. Ah. Meraviglioso. Vorrebbe anche lei esser in parte metallica. Il tatto è sopravvalutato. E se non le trema la pelle, forse -- smetterà di tremar tutto il resto? Narcotizzata. Annichilita. E' obbligata ad ascoltare, e rispondere. /Si/. Sta esagerando. Lo sente. E sente la sua schiena sbattere contro la parete in polistirolo della doccia. "Che cosa c'è da dire, non ci siamo già detti abbastanza? Pensavo di sì." ... " Vuoi dirmi di smetterla? " Ah. Doveva accorgersi. Solleva la mano dal suo braccio - e serra l'opposta sulla sua mano di carne e pelle vera. Si? Se per un attimo i suoi occhi son baluginati in quelli neri di Fuji, ora sembra distrarsi. Cercare la propria attrattiva in qualcos'altro. "Ah... E hai avuto paura?" Si, Nobu. Il suo messaggio. E' stato uno stronzo egoista? Ah, non ne ha idea. Non ha comunque niente da dirgli, o dargli. Che povertà. Sapeva che sarebbe arrivato questo momento. Fuji lo ha visto. Annuisce e d'un tratto, sembra star risalendo una corrente troppo forte per riuscire a respirare correttamente. Guida la sua mano ad appoggiarsi su una superficie ben più stabile di lei. E lei - oh, lei è meravigliosamente brava a scappare. Da lui. Dal desiderio di toccarlo. Dal guidarlo a muover quelle gambe addormentate dalla lesione spinale. Sparisce dietro la doccia, dietro le urla di scotch e cartone. "Nobu è stato il primo. Ho iniziato da lui, a costruire quello che ho adesso. Quello che voglio. Quello che sarò in futuro. Forse avrei dovuto posare solo la mia prima fottuta pietra a terra. Legarsi alle persone, quando fondamentalmente sei nato solo - non è assolutamente ironico?" Eccola la testolina corvina sbucare del nulla, sballando la doccia - appoggiandosi sopra con i gomiti, dalla parte opposta a Fuji. Fuji è solo? No, ha sempre avuto Saigo. " Tu? Sei stato sempre solo? " ... " O hai un fratello? " Deve esser stato non proprio simile a lei. Con un fratello, ti immagini? Chissà se è carino come lui. Assottiglia gli occhi, per un frangente - domandandosi una somiglianza - magari i capelli neri. Il taglio degli occhi. Le labbra. Vuole chiederglielo. Potrebbe conoscerlo, se ne avesse uno? " ... " Apre le labbra, prendono aria - chiude la bocca. Mhn. Non è il caso. Rovinerebbe l'idillio. Terribile. " Se tu avessi un fratello - vorrei che mi toccasse. " Il baluardo del sadismo che le sfiora i tratti, nascosto tra le falangi aranciate che occultano le labbra di vino speziato. Gli è così comodo il vestito indossato che ha dimenticato di avere una pelle nascosta sotto. O dei tessuti, degli organi, ed uno spirito. I sentimenti che prova provengono sempre dai pori della pelle e mai da punti troppo profondi, permettendogli di essere per la maggior parte del tempo padrone e profondo conoscitore di sé. A volte poi si aliena. Perde la concezione del tempo, dello spazio, del sè. Perde ogni cosa. Ma solo perché ha bisogno di tempo per generare dei tratti adatti. Ha bisogno di tempo per aumentare il proprio grado d'empatia, assumere il punto di vista di qualcuno. Anche quando questi lo sconvolgono. E' un dono scomodo, un'arma a doppio taglio. Ed eccolo, per qualche motivo, impegnarsi. Ripensa a come abbia spontaneamente accettato l'offerta spontanea della donna, a come gli occhi son stati sollevati in maniera intenta, come fosse conscio di ciò che suscita. L'agitazione si propaga, con quel tremolio tanto simile all'incessante muoversi di un mare d'estate. A celebrare quell'immagine sono i piedi della Doku, che s'ergono come fossero scogli rialzati che accolgano e placchino l'ira delle onde. Nella pausa del parlato, nel durante di quell'essere stabilizzato, prova uno smarrimento singolare, uno stupore dal retrogusto religioso. Come se stesse trovando qualcosa di vivo tra i simulacri che sono le sue opere. Sente parlare del nemico. E ripensando a quanto pronunciato gli occhi si aprono un poco, sorpreso di se. Forse è stato poco sensibile. La cosa migliore sarebbe rimanere in silenzio, accettare quella verità rivelata e andare avanti. Ed invece cerca di vedere tra le ciocche scure di lei con lo stesso impeto di chi trova un graffio nel viso di qualcuno che gli è caro. Ma certamente non può vedere troppo. "Scusa" Per cosa, poi? Per non essere il suo nemico? Forse, anche per quello. Ma solo in parte, una parte minima. Sente le dita di lei applicar leggerissimo peso sul braccio meccanico, stimolando il senso dell'equilibrio e dandogli illusione tattile alla giuntura tra carne e costrutto. Equilibrio perfetto di acciaio, legno, gomma, Nylon, tanto altro. Così perfettamente falso da diventare vero, da poter illudere un osservatore poco attento che a Fuji non manchi nulla. Ma anche così perfetto da poter disilludere chi crede gli manchi qualcosa. Deve trattarsi di punti di vista. Ed esita, pensando che potrebbe star fraintendendo quello sguardo assorto e d'ammirazione. Le piace? Vorrebbe chiederlo, ma tutto ciò che fa è comprimere un poco le labbra. Ti piace, la mia arte? Ma al pronunciarsi altrui gli balena in testa l'immagine di loro, visti dall'alto. Gli sembra così fuori luogo, pensare a come si senta a suo agio, specialmente considerando come è andata poco più di un mese fa quando l'ha vista per la prima volta. Sa che il Fuji che gli è noto si sarebbe ritratto. Non sarebbe tranquillo. Ed il fatto che ora lo sia riesce ad agitarlo, a fargli tremare un poco gli occhi. Si sente in colpa perché non le sta mostrando abbastanza coerenza. Al serrarsi delle mani, per quanto breve, rimane impassibile. Gli va bene, essere mosso così. Ancora si rende conto che non dovrebbe, e ciò rende il contatto tra gli sguardi più breve ancora. "no" Il tono è basso, quasi vergognato, con la stessa flessione che ha una persona incapace di celare un senso di colpa, un danno causato. No, non voglio dirti di smetterla. Gli occhi si sollevano, intenti, rivelando da sè la domanda implicita: 'dovrei, vero?'. Sarebbe la cosa giusta da fare. Ed invece raggiungono la doccia, rendendola la sua nuova colonna portante. "No, mi ha reso triste" ... Lei sparisce e si nasconde tra scotch e cartone. Che strano. Ma la cosa gli da il coraggio di proseguire il dire riguardo Nobu. "mi chiedevo se puoi " ... "renderlo felice, intendo. Se vuoi." Sconnesso, in attesa di un futuro che si presenta alle porte della mente in modo più brusco del previsto. Un lembo del passato viene afferrato, dopo lunghissimo tempo. Gli ondeggia tra le ciglia e le palpebre quasi chiuse la domanda ricevuta. Lo trova ironico, quel dire? E' stato solo? Ha un fratello? La bocca si apre, conscio della risposta. Basterebbe annuire, parlare di fatti, ma il fiato gli muore in gola. Il capo viene reclinato al terreno, fissando quella doccia ancora imballata ed assieme ad essa il pavimento. Entrambe le mani cercano un angolo dell'oggetto per sostenersi. Ed il tempo gli scorre così voracemente addosso dal fargli vivere nel silenzio anche quell'ultima affermazione. "a-" Quel desiderio. Perché dovrebbe farsi toccare da suo fratello. Gli si stringe un po' il petto, ed ora sì, che vorrebbe sentirsi tranquillo. "smettila" non riesce ad elaborare quelle parole. Passa lunghi silenzi da immobile. "Ti odierebbe" ... "lui è debole" più di me. [Vetrate] Che poi d'ilare non c'è niente. Nessun'anima s'issa dagli spalti ridendo della solitudine con cui abbraccia il mondo. Avrebbe dovuto poggiare la prima pietra al suolo, e non su un altra persona. Non ha mai saputo stare in mezzo agli altri - non ha mai saputo prendersi cura delle persone. Se fossero succulente sarebbe molto più facile. Basta umettarle di tanto in tanto - e stare attenti a non affogarle. Oh lei è brava a non esagerare con le attenzioni. Di poli ed i loro estremi opposti. Che difficili. Le piace pensare d'essere sola perchè se solo fosse l'opposto, se solo potesse ammettere di non esser più l'unica - sarebbe costretta a rivedersi interamente. E' sconveniente. E non le va' proprio. Se solo con i suoi passi Nobu fosse in grado di darle una stilettata tra le costole? Ah, no, lo ha già fatto. E' finito per correrle addosso ed obbligarla a girar il passo per correre direttamente verso la meta opposta a quella del Ryuuzaki. Se solo Fuji la lasciasse cadere? Uhn, non le piacciono più questi pensieri. Come se fossero un prurito sotto pelle impossibile da soddisfare. E se li lava via dalla pelle con un semplice e veemente muoversi del capo da dietro quell'ammasso di polistirolo in procinto di spogliarsi. Il rocambolesco arrampicarsi su specchi di silenzi terribili - perchè parla così poco? Ciocche come carbone decadono sul viso niveo impegnato nello sballarsi del costrutto - come se arrivar a fondo del polistirolo potesse nascondere chissà quale assurda verità. Ha bisogno di saperlo. Ah, ma cosa? Sta divagando nella mareggiata di pensieri incoerenti, insensati, bambineschi. La verità si nasconde in gesti al quale non da' la minima importanza. Le sue mani. Ti piace la sua arte? Non lo saprai finchè non avrai il coraggio d'arieggiar la bocca di parole differenti dal solito. Il suo coraggio? Qualcosa è cambiato - o forse lei prima non è mai stata davvero capace di vederlo? L'interesse è un fiore in appassimento, così frivolo. Che importa se quello che vede le pungola l'animo stimolando uno sguardo nascosto tra le frasche plasticose? Le ciglia si sollevano e per un attimo s'è riservata la necessità di guardarlo con un po' troppa intensità. No. Ah. E allora di che altro dovrebbero parlare? Avrebbe il coraggio di parlar ancora, di dire altro, o di percepir sulle proprie labbra quanto errato possa essere effettivamente? Le spalle si ricurvano appena in loro stesse - ripiegano la cassa toracica rendendola un minuscolo giglio sporco di fuliggine. La voluttuosa curva dei seni sembra accentuarsi, fare un male terribile - quasi quanto le linee aranciate che si mostrano un po' di più. Arrampicate lungo l'esterno delle cosce - sfumate verso l'ombra che disegna un immaginario mondo differente. Morbido, pallido. I gomiti appoggiati sul polistirolo sembrano puntellarla lì - d'innanzi a lui - eppure separata da un immenso muro di ferro, polistirolo, plastica, vetro. Forse è meglio stare distanti. Forse le manca. E' assurdo e irrazionale. " No. " Puoi? Il capino poggiato sul palmo rialzato ciondola lasciando discendere delle ciocche a lato del viso. Si spoglia di maschere e barriere - e nastri di seta come notte le consolano il collo. Le vene sbiadite che risalgono la carne. Le labbra ancora schiuse da una sola - semplice - risposta lapidale. Le verrebbe da ridere che non fosse vestita di rispetto nei suoi confronti; No, non posso renderlo felice. No, non posso capire Saigo. E il cipiglio più buio che le attraversa il viso la fa' oscillare tra pensieri discordanti. Perchè la spinge ad atti che è incapace di compiere? Gli occhi dalle vetrate aperte, ora timidamente arrossate dalla luce - sembrano rivolgersi improvvisamente nella sua ricerca. /?/ Perché? " Mi voleva. Mi ha avuta. Ma non sarò io a renderlo felice. Non valgo più niente per lui. E a dire il vero, va' bene così. " Nonostante l'ira - nonostante si sia macchiata dell'impeto d'un odio durato un secondo - si leva lentamente da quella posizione. Un corollario di movimenti - di respiri superficiali che ne dissacrano le labbra. E' difficile raccontare eoni spenti in due messaggi. E' difficile lasciar andare quel che pensavi poter esser il centro del proprio mondo. Ma a che prezzo? Disgustarlo. Deve aver disgustato anche Fuji. Zitta. Ah, è così? Forse dovrebbe esser lei a chiedergli scusa, del resto, per quel che gli ha lasciato vedere. Se tutti vestissimo quell'abito d'appezzamenti di carne - lei sarebbe tanto restia ad allentar le proprie cuciture da cingersi costantemente il petto. Il respiro. Falangi cercano di sfiorarlo - almeno, ha smesso. Sì. La odierebbe, perchè è debole? Ah, lo odierebbe anche Nene allora. O forse la sta solo prendendo in giro. Eppure, non riesce proprio ad immaginarsi odiare qualcosa di tanto simile a Fuji. Polpastrelli che sfilerebbero via dall'angolo delle sue labbra, a lambir una gota. Amarla. Scaldarla nel proprio palmo. "Sei solo geloso." Lo prende in giro - o forse alleggerisce quel tedio che lo asfissia. La sua carezza è come miele - e come l'avrebbe donata, se la tirerebbe di nuovo indietro. A morir sul bordo della doccia. " Perchè non provi a farlo felice tu? Io non sono brava nei favori che mi chiedi. Non sono un eroe. L'ho capito da poco. Magari quando sarò grande sarà diverso. Per ora mi piace nascondermi quì, con te, e non pensare alle cose che mi fanno male. Non mi piace l'idea di lasciarlo entrare. Nobu ha bisogno di qualcosa di meglio. Qualcuno che lo spinga ad esser il suo Eiyuu. Ha bisogno di esserlo." L'aspettazione della voce rivelatrice soverchia in lui ogni pensiero, abolisce ogni pace e ogni cura. Si accorge di ogni cosa, durante quei lunghi momenti, si accorge che un silenzio profondo s'è ormai fatto tra di loro, spesso quasi quanto la doccia stessa che li separa. L'entità effimera e dai mille volti pare tendersi convulsamente, facendosi vacua come a prepararsi a ricevere un nome nuovo. Ma al marionettista non va di cambiare, non ora. Volge gli occhi al vetro rivelatosi dietro il polistirolo, con la Salamandra che gli rimane in parte ancora invisibile, nascosta dagli elementi di scena. Un preludio di sguardi ricercatori sale nel silenzio, soltanto per sparire e lasciare come prova della loro esistenza delle sensazioni capaci di turbare la ragione. Momenti gravi e soavi, armonici e dissonanti. La grande e costante metamorfosi dei pensieri, la frenesia dei desideri mal trattenuti, pare figurata nelle particelle di polvere sospesa. Il soffio caldo sfuggito dalle labbra del marionettista dà vita ad una nuvoletta opaca sul vetro della doccia, che per qualche motivo gli ispira una forma sublime d'arte. Con la mano sinistra si avvicina, sfiorando con la punta dell'indice il punto d'opacità e premendo un po' il polpastrello meccanico, spostandolo subito dopo con un che di frenetico, come se non vedesse l'ora di osservarne l'impronta. Ma lo sguardo subito fugge quando si rende conto che d'impronta, quel dito, non può lasciarne. Ed allora si sente sconfitto, umiliato. Per sopperire al suo errore va freneticamente a tentar di strofinare un po' l'area intaccata dal respiro, così da rimuovere ogni segno del suo passaggio. Ecco. Magari apparirà solo come una parentesi di poca importanza. Per di più, ci son così tante cose importanti da dire. Da sentire. Come quel no, così schietto, così diretto. Non può. Ah. Lo sapeva già. Lo sapeva e si sente terribilmente bene a trovar conferma da chi ha provato a imitare. Vedi, Nobu? Posso farcela anche io, ad essere ciò che voglio. Anche senza essere riconosciuto da nessuno. Anche..anche..ah. Neanche c'è, lo Hyuga. Neanche vuole dimostrargli nulla. Un po' si pente di non aver fatto di più. Ma è giunta Saigo. Ed alla fragolina come potrebbe mai mostrare qualcosa di così strano? Nene gli ha insegnato che finché a lui sembra normale agire allora va bene farlo. Ma la cosa viene meno quando mette in difficoltà gli altri. Se vedesse Saigo confusa non saprebbe più che fare. E' già abbastanza in difficoltà da solo. Si nutre in silenzio delle parole pronunciate, dei movimenti mostrati, dei respiri più profondi e di quelli superficiali. Ok, senza girarci attorno: di tutto. Per troppo si dimentica di spostare lo sguardo, abbassarlo, distrarsi. Si desta con quella carezza e subito gli viene tolta. La mano di carne ha un breve fremito, si sposta lungo il vetro e verso di lei, voleva forse afferrarla di rimando, ma è già troppo in ritardo. Le dita scivolano sul vetro in maniera un po' patetica, finendo ad allinearsi lungo il relativo fianco. "Non sono geloso. E' solo strano pensarci." Gli occhi fissano oltre Nene, alle sue spalle forse, senza mettere a fuoco nulla. Non sa neanche se sta rispondendo alla domanda giusta. Non vuole neanche riflettere troppo sul passato, non sa cosa pensare. Se lo facesse sicuramente diventerebbe infelice più in fretta. Con una disinvoltura totale, nel sonno della ragione, avanza. Solleva lentamente una gamba e poi l'altra, tenendosi stretto al vetro ed entrando nella doccia, affianco a dove si trova Nene. Poi fa scorrere il vetro alle sue spalle, chiudendo entrambi in quello spazio e stabilizzandosi poggiando la schiena sul vetro, schiacciata. Non vuole occupare troppo spazio. " Posso farlo, se vuoi. Se mi impegnassi e poi morissi, son certo che darei della felicità a Nobu." Se con lui morisse anche quel pezzo della Salamandra, allora è sicuro che riuscirebbe a creare una tela che lo Hyuga amerebbe alla follia. Una tela fatta da poco meno di otto colori disposti in maniera tale dal parere milioni, se non infiniti. "In realtà, renderei felici un sacco di persone." Si corregge, fissandola. Forse respirando la stessa aria. No, non respirandola. Soffocando nella stessa aria. "Tu" Esita. Poi, allungherebbe l'indice sinistro, la mano meccanica, per la prima volta, tentando di premere dove si trova il cuore, senza pudicizia. "Tu non saresti felice" Ne è certo. Sa cosa non vogliono le persone. "Ma saresti triste?" Lungo silenzio, poi fa crollare gli argomenti e le barriere. Alla fine parla di ciò che davvero occupa i suoi pensieri. "sei triste, oggi." le ha cercate le ferite, prima, tra gli sguardi, non le ha identificate ma è certo che siano lì. "mi dispiace" [Vetrate] Se solo fosse narrativa ad una mano sola - certe parentesi rimarrebbero solamente parentesi. E allora perchè il palmo di Nene si cura così minuziosamente di coprire quell'impronta mancata? Ha sempre avuto una certa attrattiva per le cose che non può avere. Forse anche lei adesso si sente come se stesse ammirando le stelle, le sue. I polpastrelli schiacciati contro il vetro della doccia vogliono nasconder gli stessi fallimenti che lei vedrebbe con l'occhio della meraviglia. Di qualcosa che non tutti potrebbero vedere e comprendere. Che non tutti potrebbero mostrare. L'arroganza del suo palmo nasconde il suo respiro, s'erge a sua sovrana. E' arrogante, non trovi? Smettila Nene, non puoi avere il controllo di tutto quello che ti circonda. Una volta ogni tanto è lei a stare zitta, ad ascoltare le sue espressioni - le sue parole. Perchè tanto sollievo? Perchè tanto stupore? Il camminare sul filo del rasoio, con un passo tanto vacillante da farle predire il sapore della caduta nel baratro. E' lui a tenerla su'. E a volte a spingerla in basso. Via. La violenza inaudita si sgretola il occhi che lo guardano con la puerile necessità di sentire quanto di veritiero ci sia, quanto invece sia il suo beneamato subconscio a giocare con lei. Con quello che vuole - vorrebbe. Le dita si allungano quando la sua vergogna lo spinge a batter una strategica ritirata - lo stupido desiderio di fermarlo è un distorto eco del suo impulso - lo stesso che il vetro si cura di fermare. Un ovattato battere, come farebbe un animale - non s'era accorta? Succede di essere sovrappensiero. E la marea di parole non è che pioggia fresca sul viso, un flusso instabile capace di levarci dalle nostre terrene spoglie e trascinarci altrove. Pensiamo spesso alla mente di Nene come ad un fischio continuo, come un acufene che la spinge ad alienarsi e non sentire nel momento esatto in cui essa ritiene di non doverlo fare. Ma le parole di Fuji trovano sempre il modo di raggiungerla. Il suo sforzo. La sua difficoltà a raggirarla, a renderla piccola d'innanzi alla guerriglia che gli scorre nelle vene. Non è meraviglioso, chi combatte così? Ritratta il suo armistizio - come se si sentisse in grado di poter fargli la guerra e poter trarne piacere immense. O forse quel che è diametralmente opposto alla guerra. Che cambia infondo? Il vetrino torpido con cui lo osserva risale boccheggiante le acque che l'avevano rapita. E' ancora lì. Ad osservar l'alone lasciato dal suo respiro - e poi distrutto dal passaggio del suo palmo. "..." Morente ma non amareggiata. La fame scinde la necessità di contatto, o la necessità di privarlo d'esso per stripellar le sue corde più intime. Viscerali. In che posizione saranno le stelle sta notte? Il rombo e l'urlo del vento, il cambiamento di luce smuove un cosmo di colori che sembrano gettar una piacevole penombra dentro alla doccia. Avevano detto di fare la doccia assieme, del resto. Il come ed il quando, sono concetti piuttosto relativi - non trovi? Il cigolio della porta, il plasticoso chiudersi d'essa dietro le sue spalle. Il passo di Fuji è traballante, ma sporco della cocciutaggine di chi ha vinto - anche in caso di sconfitta. Per un attimo riesce a vedere un nuovo universo nel suo neo. Gli occhi permangono lì, maniacali. Vi siete mai innamorati dei dettagli di un altra persona? Di una ruga d'espressione. Del movimento d'un neo nei pressi della bocca quando essa parla. Di come muove le spalle. Di come le ciocche oscillano quando fa' un dato movimento. Del suo tono di voce. O del modo in cui vi guarda, come se vi conoscesse maledettamente bene. Tutto sfugge al controllo, ed il panico diviene una scena di delirante corse nel teatro nipponico. Dove i tamburi suonano forte, riproducono l'adrenalina di un temporale infuriato - di un momento di follia. " ! " Il trasalire del respiro svezza la sua bocca ad un di quei versi che ci si aspetterebbe di udire nel letto. In un momento differente da questo. Fuori luogo - o nel tempismo perfetto. Il cuore batte pigro, avvizzito, un po' stanco. E' una baracchina solitaria d'una signora che s'è convinta che stare da soli non è male. Ma a lui che importa? La sua mano meccanica non lo sente battere per lui. Forse è meglio così. S'accorge di esser stata zitta troppo a lungo. Di non aver confermato e smentito nulla. Di aver goduto di quel tocco gelido, più di quanto abbia fatto sentendo la sua pelle addosso. E' che non se lo aspettava. Ed il coriaceo batter del dito sulla pelle, la prende alla sprovvista. No - non indietreggiare. Come se potesse leggere le sue mosse e predir lo spostamento dei suoi cavalli, o dei suoi alfieri. La man dritta avvilupperebbe tra indice e pollice il polso meccanico. Non scappare, ti prego, Punpun. E nel gelo dell'arto, trova la propria pace immensa. Il proprio benessere. Come può esser un artista, capace di arrivar a tanto? Lo invidia. E si scopre ad ambir lei stessa parti di se' incapaci di sentir nulla. Puoi meccanizzarle quel pugnetto nascosto tra i polmoni? " Non te ne sei accorto. " Ah, no, non parla di quello che pensi, lettore. Non parla della tristezza, della felicità, non parla di risposte che Fuji vorrebbe. Teme per la prima volta, di disgustarlo davvero. Che lui si spinga a toccarla lì dove le sue cuciture sono lente. Non è terribilmente patetico nascondersi tra le braccia di Fuji quando il cuore sanguina malessere? Non dovrebbe. Fuji non lo merita. Nessuno lo meriterebbe. " Sono molto più egoista di quello che pensi. " Scontato, retorico. No, non è triste. Però anche questo è fuori luogo. E allora cosa dovremmo fare, esattamente? Dovremmo smettere di parlarci. Così come rifugge il suo sguardo. Così come la mano risalirebbe l'arto nelle sue rifiniture meravigliose - guidandolo a se. Alla sua pelle. I lembi nudi del collo che finiscono per strusciarsi sul palmo insensibile - se solo non fuggisse quel contatto. Come un gatto nero, disdegnato, ferito. Ma quì. E' orribile sentirsi a casa d'innanzi a lui. E' sbagliato. Lo odia, terribilmente ! Ah, lo odia così -- così tanto da -- soffocar il musetto vermiglio nel suo palmo. "..." Il suono ovattato delle labbra sulla finta epidermide però non flette niente nel cuore di quella marionetta di carne. L'eco di un amore implicito. E lasciamolo così, morente, non detto. Come l'errata felicità che prova nel scappare da lui, nel trovar il suo sollievo. La sua oasi. " Sarei triste. " Conferma. " E molto arrabbiata. " E ferita, e sola, disperata, senza nessun rifiato. Sarebbe come un susseguirsi di quei tamburi da teatro continuo - ma senza più nessun sapore. Senza adrenalina. Una scena caotica... E vuota. Te la immagini? Orripilante. Senza senso. Lo yin senza yang è solo una stupida tomoe senza significato. La mano avida lo lascia andare - e la schiena si leva pigra dalla sua insenatura. Ci piacerebbe parlar di passi, di lunghi attimi - in realtà, le basta alzar la schiena dal vetro per trovarsi d'innanzi a lui. A puntellar le ginocchia sulle sue senza fargli pesar alcun aiuto. Come se fosse un furtuito caso in cui Fuji può tirar il sollievo di non sforzar eccessivamente i propri lombi a reggersi in piedi. " Sei coraggioso a dire ad alta voce quanto tu sia un ostacolo nella felicità di Nobu. " Ma è terribilmente vero. E questo -- ah. Le spezza il fiato. " Mi chiedo... " ... " Cosa provi, desiderando la sua felicità - e desiderando al tempo stesso -- me?" Uno scontro titanico? Un attrito? La difficoltà di sentimenti che non possono rappacificarsi tra loro se non privandosi d'un o dell'altro. Le labbra si schiudono - il mento si fa' leggero di colpe e s'issa come se una minaccia vigesse. Fatale. Non respirare. Non battere gli occhi. Fa' male -- e lo stomaco sembra ribaltarsi su se stesso più volte. No, non è vero. Lo ha solamente sfiorato. Solo il labbro inferiore. Quel neo. Ah, è così fuori coro da farla impazzire nel pallore insensato della sua pelle. Non differente dalle efelidi che le cantano maestose sul viso - ora illuminate dall'ultimo sole. Ma il gelo del suo arto la riporta a terra, mentre lo lascia andare. Lui. La sua anima. Scappa. La smetto. So' che vuoi che lo faccia. Ma dove può scappare adesso? Allunga solamente il collo a far il movimento opposto a quello che prima l'ha mossa in suo favore - a guardare altrove. La porta. La finestra. Il vetro. Bella doccia, tutto sommato. Resistente. Però dovrebbe montare più maniglie per Fuji - e magari il classico pozzetto dove può sedersi ogni tanto. Se proprio ha bisogno di rilassarsi. " Ho esagerato. " Un chiedere scusa con le parole sbagliate - ma lo ammette. E allora ritira le sue labbra ed il suo respiro. Ritira anche il tocco con cui l'aveva cercato, voluto, codarda. O forse -- forse ancora nei binari nel senno. Della razionalità. Ho esagerato. Volevo esagerare. Ma so' dove fermarmi per non farti male. L'evidenza delle sue visioni interiori gli danno l'aspetto di un allucinato. Lontano, distante, coi pensieri e con lo sguardo. Lontano e solo a godere di una sorta di convulso piacere: sapere di star facendo le cose nel modo giusto. Sapere che il proprio pensiero è capace di collegarsi a quello di Nene. Con lo spirito circondato da questa sporca gloria, si ritrova nella realtà a chinare un poco il volto, dissolvendo il pallore della carne sotto ombre nuove, un po' più speciali, un po' più..passionali. La sua bocca è aperta, le sue palpebre sono aperte. Ricordi, Nene? Come sei stata giacente e morente, sollevando le tue mani per cercare un qualche tipo di grazia. Si arresta per un istante, con gli occhi dilatati e fissi. Tutto scompare al di fuori delle quattro mura di vetro della vasca, la finzione sfuma ed assieme ad essa parte della realtà. Rimangono solo loro. Loro e l'arte. Fuji ha un brivido, vedendo gli occhi altrui, sentendone la pesantezza ed il significato gravargli addosso. Inspira, sollevando la corazza del petto. Con gli occhi sorpresi di chi ha ricevuto un'apparizione improvvisa e quasi intangibile. Non si è mai soffermato sui dettagli del viso. Li ha visti. Ma è sempre stato preso dagli occhi. Dalle labbra. Dal nasino un poco arricciato. Dalla pelle. Venir scoperto gli suscita desiderio di scoprire. E rendendosi conto di quelle chiare lentiggini gli vien naturale chiedersi se le avesse sempre avute. Un tratto così particolare, un connotato così evidente, non l'aveva mai notato? Gli occhi s'impuntano su quel miasma di puntini estremamente chiari, piegando un po' in avanti il busto e arcuando la schiena per ridurre le distanze, metterla a fuoco. Il sangue nelle vene scorre e batte come se qualche cosa di impura gli stesse scorrendo dentro, avvelenandolo e contaminando lo spirito. Invaso da una passione miserabile, senza scampo, atroce. Fermo, perché non ha il coraggio di muoversi. Perché se lo facesse romperebbe il suo voto di non belligeranza. Non vuole usare nessuno. E' lo stesso motivo per cui s'assicura di farsi piccolo nel letto di Saigo. Il motivo per cui esce presto di casa e torna tardi. Il motivo per cui guardarla negli occhi è insopportabile. Eppure la tocca al petto, provandola. Ripugnerà il tocco freddo, meccanico? Può davvero piacerle qualcosa che ha creato lui? Può davvero raccogliere tutta l'arte straripata dal ricettacolo delle virtù? Il pensiero si spezza bruscamente, per il suono nato in reazione al suo tocco. Ritrae immediatamente la mano, ci prova, ma fallisce. E' già stato afferrato, quel polso. Potrebbe tirare un po', ma si blocca. Falsa accidia, la sua. Se è stato afferrato, non può far nulla, se non fissarla con occhi più intenti che sorpresi. Ella risveglia nel cuore un male occulto ed una speranza segreta. E' più egoista di quello che sembra. Il mento si solleva, destato in maniera quasi spavalda, curiosa. Ma non trova parole pronunciabili. Il grido, il gesto, il tentato balzo, il subito arrestarsi, la vibrazione dei muscoli sotto la canottiera, lo spegnersi del volto come fosse una vampata risolta in cenere, l'intensità dello sguardo simile al bagliore di un combattente. E poi, il respiro. Il respiro che gli apre le labbra. Tutti gli aspetti della persona manifestazione una potenza di vita verso la quale ogni parola sembrerebbe troppo patetica. Anche i suoi fantasmi mentali vengono presi da una specie di panico, da un terrore repentino. Strusciandosi sull'arto insensibile, gli provoca forse più pensieri di quanti ne ha avuto toccandole il collo. O le labbra. E' la sua arte, a toccarla. Ad essere oggetto di desiderio. Arte che è parte di lui. " ..." Non risponde. Pare che non debba parlare, che non possa dare alcun segno sensibile della propria esistenza, come fosse diventato più simile ad Aozora. Trema dentro, dandosi qualche attimo di riposo al sentir le ginocchia di lei sfiorare le proprie. Vorrebbe ringraziarla, ma anche lì il solo cenno di vita è uno sguardo che scende e risale tanto rapidamente. Coraggioso eppure in difficoltà, di fronte a quella domanda. Cosa prova? Non è una riflessione, o una conferma dei propri dubbi, è una domanda. Se non rispondesse sarebbe certamente strano. Non vuole sembrare strano, se ne accorgerebbe. "a--" sillaba strozzata, perché lei si avvicina. Le iridi si dilatano, il respiro cessa completamente, la cassa toracica rimane sgonfia ed i muscoli rigidi. Solo gli occhi si muovono, senza ausilio del capo, abbassandosi sui movimenti altrui. Come in preda ad un raggelamento le dita della destra si agitano sul vuoto. Le labbra s'avvicinano ed in viso gli passano immagini di baci. E' quello, che sta per accadere? Apre un po' la bocca, compiendo un movimento dopo lunghi secondi. Si prepara a qualcosa che non arriva, venendo sfiorato al neo. Il viso s'arrossa sotto influenza della mancanza d'ossigeno. Sarebbe pronto a soffocare, se non fosse che a ritirarsi è lei, per il bene di lui. Ha esagerato. Il mondo crolla, già per la terza volta. Si è limitata per lui? Il cuore torna a battere, più forte. Eppure irrequieto. "non ancora" .. "quasi" Sente come se stesse venendo punzecchiato da mille aghi, che altro non son che pensieri. Avrebbe dovuto chiudere la bocca, come ha fatto fino ad ora. "sto bene" il mento s'abbassa, guarda altrove anche lui, arrossito. Passano i secondi, gli sfuggono di dosso. "Se.." lento, vorrebbe allungare entrambe le mani assieme per la prima volta e portare a sè il braccio destro di lei. Con la destra sosterrebbe l'avambraccio e con la mancina creerebbe un sostegno per la mano, avvicinandola al proprio viso. Fissandola, ma non vede abbastanza bene. Deve avvicinare un po' il viso. Tendersi un poco, fino al poter sfiorare il dorso con il naso e con il labbro superiore. Intento, ma lento, fermo. La bocca un po' aperta si richiuderebbe, stringendo quasi per caso un lembo di pelle e carne tra le labbra. [Vetrate] Che luce è quella? Ah, non riesco a respirare. La sua cassa toracica sta morendo, o forse proprio adesso ha preso a respirare un po' più velocemente. Non ha il controllo dei dettagli di se' - diviene informe liquido tra le sue dita. Osi? O era la reazione meccanica di qualcosa che hai già vissuto e che non vorresti ripetere. S'è distrutta nell'idea di aver avuto per un istante solamente il suo consenso ad esagerare. Eppure adesso non c'è una parola a sfuggirle dalle labbra. Il vetro mostra un luogo a lei estraneo, e diversi riflessi differenti di se le deridono il cuore. Delle sue tre gemelle nessuna sembra voler distogliere lo sguardo da quelle labbra. Smettetela tutte. E lui? Come le ciocche decadono sul collo. Come quei fiori esangui sbocciano per chiamarla, o per privarsi del fardello di combatterla. Lui che è parte integrante di ciò che ha vissuto, il valore assoluto del tempo perduto. Trema. La sua voce tremerebbe. /Non ancora/. E allora quando? Un nodo la chiama a lui di nuovo, le evita d'evitarlo - e l'evasione è migliore amica d'un massacro dove riflessa nel nero immenso si trova finalmente meravigliosa. Ferma. Fermo. Fermi -- quando ci siamo flessi tanto? Le labbra sembrano voler emetter suoni che non rispecchiano alcuna vibrazione delle corde vocali. Non c'è verso. Non c'è respiro. Ah - no, quello c'è. Il suo, quello di quest'uomo. Il rilassarsi dei suoi muscoli la obbliga in qualche modo ad inchiodarsi lì - a premer passivamente le ginocchia contro le sue. Tenendole ferme, stabili. E come se tutto il mondo attorno avesse preso lo strano gioco d'iniziare a vorticare - una di quelle parigine sembra cedere drammaticamente verso il basso, superando la curvatura della coscia e quasi quella del ginocchio. La distesa di neve lascia intravedere piccoli lividi rossastri, in via di guarigione. Oblunghe macchie di colore fioriscono nella morte. Ti ricordi quel discorso sui fiori? Meglio fiori finti, o veri fiori? Quelli finti non li vedrai mai morire. Sono la sicurezza in cui ci crogioliamo. Ma il dolore, la speranza, l'amore di vedere una corolla finalmente aprirsi nei suoi migliori colori? Il suo profumo. La scelta d'osservarlo, e non coglierlo. Di nutrirlo. Di sperare che il sole lo baci nel modo giusto, nel momento giusto. L'esser capuco, fragile, meraviglioso, come una libellula. Inspira ed il petto le è fragile. Se solo ispirasse ancora un po' - potrebbe scoppiare. O potrebbe smettere di respirare di nuovo. Le sue labbra la ammazzano. Ah, ma non le ha sulle proprie. E' stato solo un flash sbiadito - trascinato dalle stessa dita che hanno mosso questa fragile marionetta a dargli qualcosa - e poi strappargliela dalle mani. Crudele, il burattinaio. Quando Nene chiude gli occhi, il mondo vi ci muore attraverso. Il levarsi della mano lo insegue, il respiro sfiora le labbra schiuse - e con la leggerezza di un aereoplanino di carta pesta. Il respiro di Fuji basta a rigettarla nelle più tediose fiamme del Naraka. Si lascia cadere a lui, con il collo che si ricurva con disarmante flemma verso l'apice delle spalle. La gola in mostra è la via lattea, tanto pallida - tanto nervosa - tanto corrotta da minuscoli capillari. Una visione eterea. Sfumata. Incosciente. E' surreale. " a a h ♡ " Non s'è mossa. Non ancora. Quasi. Ma lei non è lui - ed al di là dei nostri teatri, del nostro palco, e di nessuna platea - le sue dita inermi si muovono a stento contro il suo mento - contro le labbra che sfiora di sfuggita. L'alone timido di un rossore supera le venette del metacarpo. Ed il torpore del suo respiro la scuote. Dalle ciglia lo sguardo è liquido quanto basta da sfuggirgli - da combatterlo - sfuggirgli ancora. La delicatezza con cui muove le falangi a curvar appena il polso a rivolgersi verso l'alto. Il pollice a sfiorargli il labbro inferiore, spingersi oltre una figurativa barriera. Lo aspetta. Ha sbagliato? Ah certe cose non possono esser orchestrate. Certe reazioni son semplicemente chimiche. Un violarsi di pelle, di barriere, in punta di piede. Ed il suo disordine caotico sembra avere un senso diverso. I capelli che le scivolano lungo la fronte nascondono quella coltre di ciglia. La destra si solleva - lo cerca. Quell'arto. Quell'arte. Ah. L'ha davvero richiamata a se? Addosso? Si. Lo ha fatto con delicatezza. In silenzio. Appoggiando il palmo sulla spalla e avanzando di qualche centimetro con i fianchetti. Forse ora. Forse muove passi lenti per lasciar che lui le dica quando smettere. Quando è esagerare, del resto? Non ne ha più idea. E lui? Ne ha? L'acufene, quel metaforico fischio fisso. Inspira piano. Il suo odore. E va' meglio. Fosse riuscita a violar quelle labbra, carezzarlo con il pollice - finirebbe solo per bagnargli il labbro inferiore. Renderlo appena più rosso, appena più lucido. E la ritirata è lenta - fino alla propria bocca. Non è il momento migliore per alzare gli occhi nei suoi? L'immenso oceano è un posto terribile dove perdersi. Forse anche lei lo riflette, esattamente come lo vede. Passionale, appassionato, meraviglioso, forte, agguerrito. Le labbra si schiudono ed il polpastrello con cui ha dissacrato delle impalpabili barriere finirebbe per valicar le porte di quei petali vellutati, arrossati. Carezzar la propria di lingua. E sparire per un attimo solamente. " Dimmi di fermarmi. " V'è qualcosa di terribilmente ostile in lei, contro di lui.... Qualcosa che gli rimane oscuro e impenetrabile, forse il riflesso dei propri occhi scuri. L'immagine del mondo impallidisce, diventando un secondo piano per una marea di dettagli. La mano che s'allunga, le dita, il pollice, la forma delle unghie ed anche la loro lunghezza. Vede ombre dove non ci sono. Nell'abbandono vede la morte delle virtù. Della stabilità. Forse l'ha preso da Saigo, questo. E per la promessa fatta non potrà neanche restituirglielo. Si sente freddo, ghiacciato, morto. Nessun'altra punta di nessuna arma è mai penetrata tanto a dentro, col rischio di ferirlo così crudamente come potrebbe fare quel pollice. Di attimo in attimo sente le sue ginocchia starsi per distende, assieme alla carne affranta che par voler obbedire alla volontà che lo spinge ad issare un po' il mento, rendendo un po' più visibile il rosso tra la schiusa delle labbra. Rimane un singolo punto lucido in lui, un solo punto dove non c'è sangue che bolle o tremore soffuso: il braccio meccanico. Nella distanza, oltre la vetrata, i banchi di sabbia iniziano a nereggiare, coperti dalla notte. Credendosi inesistente, si stupisce a scoprire il contrario; smarrisce il senso del proprio corpo e del reale. "..." Le parole sono parole, sente di non averne bisogno. E così procede, un soffio ancora, che decreta e coincide casualmente con l'oscurità incarnata della notte. Il suo viso si rinnova e le luci si fanno in lui come fiamme di una candela inclinate sotto il vento, distaccate ma con un tenue lembo azzurrino che, come pallida favilla, riarde e occasionalmente si risolleva nascondendo la profondità del naso e degli occhi. Il suo abisso nero s'è ridotto ad una pozzanghera: occhi traditori, che l'han venduto per del sentimento. Il loro tremolio è il suo Giuda. Venduto per così poco. E' davvero poco? Rivede quel volto adamantino e vicino, occupato da pensieri segretissimi e nemici. Il suono percepito, che la rende immediatamente nemica. Serra in un primo momento i denti. "!" Soverchiato dall'istinto selvaggio di difendersi e quasi offendere come in una lotta disperata. Le inclinazioni del pensiero scoppiano e fanno straripare ogni sentimento, tenendolo freddo. No, non mi avrai. La crudezza di questo pensiero gli sembra mostruosa. Gli sembra di sanguinare sotto ogni percossa iterata ai propri sensi. Il crollar delle parigine. Del pensiero. Di ogni cosa. Il silenzio di ogni cosa trasale in lui con un respiro pesante, capace di torcergli un po' la bocca. Vorrebbe capire di più, gli basterebbe vederle bene gli occhi, ma i capelli scivolati sulla sua fronte nascondono persino la barriera delle ciglia. Più acutamente che mai sente lo stridore dei propri pensieri, la falsità dell'insicurezza, la malignità dell'espressione sorpresa e dei muscoli spasmodici. Ogni traccia di tenerezza e bontà sembra scomparire assieme a speranze e illusioni superficiali. Fortunatamente è lei a cercare per un momento lo sguardo, rendendoglielo visibile. Ma il risultato è più dannoso ancora. Invece di capirla, scopre nello sguardo della Doku la stessa ombra che sente passare sul proprio sguardo. Livido in viso, quasi come la carne esposta altrui. Le labbra si schiudono, vorrebbe dire mille cose insensate con una voce sibilante. Ed invece, il labbro inferiore vien toccato. Il cuore gli si stringe e poi si discioglie. Ad uno sconosciuto parrebbe insofferente di quel gesto. Ed invece, la contrattura delle labbra gli si muta in un totale naufragio e abbandono. Resisti corpo. Ed invece, renitenza alla leva. Rifiuto di prestare il servizio per cui la mente e il cuore s'erano ben accordati. Un reato, senza dubbio. Qualcosa gli sfugge dal labbro inferiore, assieme all'essenza umida. Un suono simile all'urlo rauco di una serina, prolungato a poco a poco nella lontananza delle pareti e facendosi a poco a poco dolce, come note di un flauto. Poi, d'un tratto, si spegne. Dimmi di fermarmi. Supino, col respiro pesante, nell'aroma del sale portato da chissà quali elementi. Ogni elemento esalta in lui la potenza della vita, tanto che potrebbe attrarre a sé l'universo per non morire. Lo farebbe, anche al costo di gettare la sua anima ingombra al rogo, per farla morire da pura. Ha trovato un sacco di risposte, ma nessuna da poter dare a lei. Le considerazioni di Nobu, riguardanti la morte e la bellezza, gli risuonano nel profondo. Canti distanti ma ben udibili. Tutto s'addensa in un nodo convulso, concentrato nella sua gola e nella mascella serrata. Eccolo, il climax. Ecco che ogni immagine gli ripassa di fronte al viso. Ricorda ancora bene l'ectoplasma dell'Arte essergli sottratto dal contatto con le sue labbra. Ed ora, lo rivede. Il pollice colpevole viene osservato. "Giura che lo farai" Con sguardo deciso, usa ciò che ha preso per avanzar d'un passo, sistemando la gamba destra nello spazio che intercorre tra le sue, flettendo un poco in avanti il busto, tendendosi e tendendo assieme la mancina per prenderle il polso colpevole di reato e tirarlo un poco indietro, per sottrarle dalla bocca il pollice. Adunate le truppe, sistemati i pezzi e compiuta la strategia, deve solo attaccare. Vincere. Riprendersi la sua arte. No, sbagliato. Quell'arte è perduta. Ma può creare un nuovo ricettacolo. "Fermati" Pronuncia l'oggetto del giuramento. E le dita della destra scivolerebbero lungo il polso afferrato, col medio che s'insidia lungo la linea delle vene e verso il palmo, facendo si che la mano della Doku rimanga aperta. Come una serpe, che divora gradualmente la sua preda, lui tenterebbe d'inghiottirle il pollice, facendo battere la lingua sul polpastrello e serrando la mascella alla prima falange per tentare di bloccarla. Ed allora come l'oviparo farebbe si che siano i suoi liquidi a scioglierle le carni, a far cadere sulla lingua l'estro rubatogli per poi inghiottirlo. Non cerca il suo sguardo. Non lo farà. Ma entrambi gli occhi fisserebbero le carni delle braccia, immobile, senza fretta. Staccatosi un poco dalla parete, teso verso di lei, facendone fonte d'equilibrio, la via d'uscita è più esposta. [Vetrate] "Si" E non v'è esitazione nel dirlo - nel miagolarsi fuori dalle labbra di parole che sembrano convergersi nella similare melodia d'un orchestra. Fermati. Suona come suonerebbe la risposta ad una supplica - e riflette molto bene il suo aver smesso di far cosa? Tediarlo. Tediarsi. Ma il suono del suo respiro le asfissia la carne fino a vederla urlante, in una mareggiata dai colori che ciondolano pigramente tra il rosa ed il rosso. Ah, le stelle. Anche oggi puoi vederle. Tra setto e gote l'orsa maggiore si può trovare, solo lievemente differente. Galassie immense si protraggono in un adorazione immobile, silenziosa. E se il tuo dio dice basta, cosa puoi fare? E' crudele chiederle di fermarsi dall'amarlo - non trovi? Incapace, risponde. Si, mi fermo. Ma il riflesso di vetro dei suoi occhi sembra morire piano tra le sue labbra - lì dove la propria saliva è solo una patina leggera - li dove gli incisivi dell'altro sembrano volerle dilaniare le carni. Sei solo drammatica, smettila. Trema. E forse fermarsi non ha mai fatto così male. Forse il silenzio dei suoi occhi dovrebbe tornare solamente a fare silenzio. " ... " Ah, chiedermi di fermarmi in prevenzione d'ogni evento - quando tu stesso non hai avuto nessuna intenzione di farlo. Quando i tuoi occhi sono tanto migi, tanto liquidi, traballanti ed incerti. Quando il solo respiro che m'anima il petto trema ad ogni tuo movimento? La schiena contro la vetrata rimane inerme - le cosce nell'obbligo di separarsi l'un dall'altra per costituir una nicchia per quel ginocchio. Per quell'affronto. Fuochi fatui le sfiorano il viso - danzano tra lingua e dita frammentandole l'anima fino alla genuflessione d'essa d'innanzi all'es, all'io, ed il super io. Hanno importanze irrisorie, o forse son i giostrai d'ogni sua mossa? Le sfumature sul suo viso sembrano ombre affilate in procinto d'ammazzarla. Il risalirsi del respiro sembra voler mettere in dubbio ogne sua sicurezza. Veste i panni di quel che fu' il marionettista, cucendosi addosso pezze d'ira e amore, ira, passione, collera. Ah, devo scegliere da che parte stare. E in un batter di ciglia fu' dolore - terrore - un tremito che le fende il petto e di propaga alla bocca di lui. Il pollice s'arcua appena, e quella falange lo affonda. Lo fronteggia. Si rende colpevole d'una ricerca che supera il mero e povero corporeo, sfiorando tramite quell'incavo l'anima del marionettista. No, scherzo. Sarebbe bello farlo, però. La risalita di quella cascata al contrario è difficoltosa - ed il proprio respiro par improvvisamente lo specchio di quel teatrale dilettante ch'è Fuji. Celere. Irrazionale. Non smettere. Lo dicesse ad alta voce, sarebbe un controsenso. Sarebbe un azione incoerente. La rovinosa caduta d'una delle parigine sembra rifletter la vile sofferenza di chi non è più utile a niente. Il maculato rivolgersi d'attenzione a lui, al nulla, al proprio arto scoperto - bloccato dalla sua mano. Non si ritrae e non la disgusta, ma, come vorrebbe farlo. Sarebbe facile allora spingerlo via, rinnegar tutto. Issarsi al di sopra della felicità come regina d'essa, unica detentrice di quello scettro. Ma ora fermiamoci così - con le labbra di questo amabile corvo schiuse a colar fiele sotto forma d'un respiro ansante. Di gote rosse. Di labbra come anice e cannella nel vino caldo. Le membra ardono e noi, da fuori, non potremmo comunque capire l'imbarazzo di non aver niente - e desiderare tutto. Quanto arduo sia fermarsi, e spinger via quel corpo. Il suo esser cocciuto, falso, terribile. In un certo senso il figurativo idillio dell'auto-erotismo la tocca con le sue sudice dita... Sudice? Se lui è lei, e lei è inevitabilmente lui -- a chi altro dovrebbe devolver quelle labbra? E quelle mani. Quale miglior eterea visione se non perdersi in se stessi, nel proprio personale capriccio? Il collo rigetta il capo verso quel vetro che ne arresta la caduta - e il ventre s'adagia nascosto ed arido - contro quello dell'altro. Non sente niente. Ah no, questa è una bugia. Ama dirsele. Ma non le sa' dire agli altri. "Tu no." Il lamento, ha sbagliato. Ha esagerato. Questa volta ne è colpevole e incredibilmente consapevole. Questa volta il sudiciume della propria anima grava titanico e la schiaccia. Mani lungo il collo ne deprimono le carni - rendono purpuree le labbra. Le falangi della propria mano battono una strategica ritirata alla volta del corrispettivo opposto. Il suo polso. Osi chiedermi l'armistizio prima d'una dichiarazione di guerra? Osi rifiutare di tuffarti in mare, quando sto annegando? La luce rossa del crepuscolo le cambia il colore della pelle, delle labbra che tanto hanno subito passaggio di fiato incandescente - che ora hanno perso ogni umidità. Le brucia il petto tanto da incassarsi in se' stessa - apparire piccola, fragile, maledettamente pericolosa. Io mi fermo, tu non farlo - ti prego? Il liscio passaggio dei polpastrelli vorrebbe trovar l'attrito delle sue nocche. Il gentile cercarsi, trovarsi, attaccare. O si sta difendendo? Che stupido pensare che gli abbia voluto rubare qualcosa - quando è solo stata il capezzale imbandito per levarlo dal suo torpore. C'è riuscita, amaramente, spingendolo però verso altre tavolate. Ah, non arrabbiarti Nene, non ti crucciare nemmeno. Sarebbe di cattivo gusto. Rovineresti tutto. Potrebbe imporsi, urlare, piangere. Oppure potrebbe accettarlo, amar la sua scelta - i suoi cambiamenti. Potrebbe guidare i suoi passi. Ma camminando assieme, non ci sarà mai modo d'incontrarsi. Ed il dolore di questo pensiero, la sfiora -- l'abbandona. Forse ora dovrebbe fermarsi dal guidare l'arto tiepido verso il bordo slargato di quella maglietta. L'ombra dell'ignoto diviene sempre più piccola e l'epidermide si dilegua dal fantasioso immaginario mostrandone il profilo niveo. Un baluardo d'anche, di creste che ne conformano il bacino affossandone il ventre. Il bordo nero e pizzicoso del merletto gioca con la velata confusione della notte che ne cinge i fianchetti. Lì dove il palmo di lui vien guidato a posarsi. Abbracciami. Toccami. E' questo che volevi infondo. E' questo di cui io mi sfamo. Rimanendo inerme. S'è fermata dopotutto. Lei, ed il suo maledetto respiro. Il chiudersi delle labbra sancisce lo svuotarsi taurino del petto. Grazie. Grazie perchè ogni tuo giorno di felicità, sarà un giorno della mia. Ogni tuo giorno della tua tristezza, sarà un giorno della mia. Va bene così, Fuji, purchè tu possa ricordare. "Quello che cerchi, lo puoi trovare tra le mie labbra." Ah, smettila di farmi la guerra con armi di gomma piuma. Affila la shirasaya e affondala nel mio petto. Io cadrò su di te. E nevicherà fiori e primavera. Il tremolio del petto segue la fedele compagna nella sua risalita verso il gomito. Tanto pigro il tocco - da ridurlo al solo dito medio il quale profilo s'arrampica lentamente lungo il retro del suo avambraccio. La mano presa in ostaggio si fa' beffe delle sue promesse. Lo ridicolizza, o ridicolizza se stessa - e la sua integrità morale d'innanzi a lui. Lo issa, lo porta a se'. Lo chiama, nereide, spostandone solamente il mento. Le labbra umide. Differenti dalle sue che son ferite di respiri. Solchi come di meravigliose arpie le hanno sfregiato il viso dipingendo il viso di una donna che non conosce. O nella quale si riflette fin troppo bene. Cantar la stessa nota, ora, è meraviglioso. E allora perchè le chiede di fermarsi? Che sia spaventato? Che si senta inadeguato, ingiusto, impreparato. Il capo disegna il cenno d'assenso. Fai di me ciò che vuoi. " Fermati. " Ed ecco lo scherno, il verso. Ma non suona come tale. Suona come se volesse vestir le sue cuciture e mostragli cosa esso stia facendo. Quanto il cuore batta assordante sotto i suoi polpastrelli. Quanto più denso e concreto sia quel presupposto al quale ha voluto sorridere, che sfrontato. Come ci si sente? Il mugolio che le esce dalle labbra ha un tono incerto, flesso alla volta del ripetere una frase già sentita. Non è lei a scappare, non la conosce forse? Lo ha rispettato però, gli ha dato in mano tutte le carte per non farsi rispettare e l'ha supplicato d'andare avanti. Per poi confonderlo. Smettila. Fermati. La tua arte m'appartiene, è morta tra le mie labbra - e lì rimarrà. Uno stralscico del nulla che eri, t'è stato strappato. La tua benda. Il tuo confort. E più il respiro trema, più la carne nel fianco sembra sussurrargli di stringere. Di fare male. Di attaccare, in fretta, prima che il nemico apra gli occhi al sorgere del sole. Il pollice gli rende le labbra lucide in un sol passaggio - e la nocca dell'indice che gli aveva fatto issar lo sguardo, decade morente in una carezza nella parte alta della gola. Al suo centro perfetto. 'Non farlo, mai'. Consumami, se vuoi. Le labbra animano le ombre del teatro giapponese - lasciano interdetti gli spalti. Inorriditi. Odiatevi, lo avete fatto, continuate ! Ma lei, è olio essenziale nelle sue dita. Lo impiastriccia, e ci si sozza l'anima lasciando che lui vada avanti. Sempre. O magari che fugga, una volta e per tutte, chiudendola fuori dalla propria vita. Stanza. Doccia. Potrebbe farlo, e lei, lo accetterebbe. Come ha accettato d'esser nulla. E' meglio così, infondo, è nata sola. E nessun uomo vorrebbe combattere la naturale evoluzione delle cose. Ma perché? Non comprende, la duplica natura dei suoi gesti. Che demenza è quella del marionettista? Il desiderio lo spaventa finché non è di entrambi. Ma lei, lo desidera forse? E' presa da quella stessa furia? Insofferente, la brucia più a dentro, inasprisce la ferita e le piaghe della mente. Lo stomaco, vestito della canotte, s'agita quando sente il contatto con quell'altro. Più piccolo. Più fragile, paradossalmente. Al sommo del cranio e del petto i colpi son duri, ma illusori. Ella s'avvicina e si allontana come se l'aizzasse con ferro rovente. Forse deve smetterla di desiderare e basta. O di seguire l'istinto. Ma se lo facesse adesso la deluderebbe di certo. E magari cambierebbe il suo nome nella rubrica dei messaggi. Sarebbe estremamente triste. Le narici palpitano. Ed una forza spaventosa s'agita nelle sue viscere. Gli occhi si spalancano un poco, come per divorarla con lo sguardo. Tutto il corpo vibrante si sente nudo sotto la canotta, come se le pieghe non vi aderissero più. Il viso, svuotato dalle ombre crepuscolari, si rialza cupo come un fuoco senza raggi. Indossa vestiti, ma non maschere. E' forse questo a renderla bellissima, terribile, piena di miseria. Non stavamo parlando di Fuji? Anche lui, ci stava pensando. Ma ogni volta che lo fa si ritrova incoerentemente a muovere un passo in quel mondo, come ha fatto sistemando una gamba la dove sia vagamente irraggiata di calore. Un'onda gli si rovescia sul petto quando quel dito affonda un poco di più. Gli occhi si sollevano per la prima volta sugli altri, cercandone le intenzioni. Aggressivo, come Saigo. Ed allora con la lingua s'avviluppa, con il respiro crea un vuoto e la mascella si serra poco di più. Ha la sensazione che potrebbe davvero dissolverla in quella sorta di calda umidità letale. Vede le forme della doccia sfocarsi, ed in primo piano la silenziosa forma che aderisce a lui come la scorza al fusto. Sente quel debole peso addosso, ed anche se così non è gli preme forte quel contatto fisico sull'addome. E' soffocante, non da indizio di potersi allentare. La mollezza delle carni dell'Agente passano sulle proprie, più tremanti, continue, come trema la ghiaia sull'acqua che scorre in un lago. Ed innumerevoli cose scorrono su quel lago , sorgendo dal fondo; passando sempre più numerose, più impure. Tutto cambia. 'Tu no'. Fissa il collo teso e rimane immobile. La realizzazione lo prende come un lampo che parte dal terreno e finisce al petto. Ora capisce, soffre di lei e di sé; e la sente soffrire, la comprende e la sente propria come il legno appartiene alla fiamma che lo consuma. Ora capisce di più perché morire sarebbe una buona idea. Bisognerebbe che accada. Ma ha deciso di essere avaro. Volge dunque gli occhi a lei, come a chiederle conferma. Posso essere egoista anche io? Non a lungo, per poco. E' una parte di te che mi hai gentilmente rivelato oggi. Sapevo ci fosse, forse. Ma non so se l'ho presa, quel giorno. Ancora, le due sillabe bombardano i pensieri. Subito si chiede cosa debba fare. Seguire la spinta invisibile del suo estro? No- aspetta. Prima di quello. Dovrebbe darle retta? Assecondare, rifiutare.. perché deve essere lui il responsabile? Pensava di aver disposto perfettamente le pedine perché ciò non accadesse. Una stella sgorga dalla doglia del cielo, in fondo alla grande distesa di sabbia che avvolge lo specchio d'acqua sotto di loro. Il riflesso della luce lunare s'infrange in maniera meccanica tra i vetri finendo per rilucere una lunga spada pallida che fonde i loro colli nei lembi della notte. Così misteriosa. Vorrebbe rimanere così per una parte dell'infinito. Una piccola parte. Minuscola. Peccato che non importi quanto lo divida, l'infinito sarà sempre infinito. Allora dovrebbe diventare eternatore di lei? Puoi diventare una marionetta, Nene? Nel senso migliore della cosa. Per lui una marionetta non è qualcosa da usare e buttare. Una marionetta è come Aozora. Con lo stesso diritto alla vita e alla gioia di un umano, ma ancor più all'amore. Può imprigionare il suo spirito in carceri meccaniche, e averla sempre? Diviene inerte sotto la volontà altrui. Muto e immobile accoglie l'intorpidirsi delle membra sotto il peso delle vene pulsanti. E la stretta a poco a poco aumenta su quel fianco quando viene condotto sotto la maglia. Sente il battito. Lei ha un cuore. Lo sapeva già, ma ne è sorpreso. Nelle pupille trattiene uno sforzo penoso che gli fa tremare il labbro, come se avesse appena combattuto una timidezza selvaggia per pensar all'organo altrui. Esita un poco, ma riceve un aiuto fondamentale. Quello che cerca è tra le sue labbra. Non sopra. Immediatamente ci si fissa con gli occhi. E' lì, che dovrebbe andare, seguendo quel suggerimento. E' il solo modo di esaudire la richiesta di non fermarsi. L'unico che gli viene in mente. Forse non è stato così stupido a schiudere le labbra prima, lo aveva capito. Sente lo spirito scorrergli dagli occhi. Prende in mano la sua risoluzione e se ne veste, diventando intento. Nuovamente pronto. Più ebbro di prima. La mano di carne trova finalmente il coraggio di spostarsi, viaggiare dal fianco al centro dello stomaco, per poi salire con palmo aperto e dita allineate. Cercando d'insediarsi per il torace seguendo la linea del retto dell'addome. Avvicina il viso al suo, trattiene il fiato, ed ha un solo e fatale attimo di esitazione, tale dal dare a lei il tempo di pronunciar la beffa. Fermati. Si paralizza, provando un'amarezza fisica che dalle labbra gli scende dentro, come se avesse divorato quelle sillabe e si fosse reso conto del loro essere venefiche. Il sangue gli va via dal viso: impallidisce. Freddo richiamo alla realtà. La mano che viaggiava coraggiosa prova a staccarsi, battendo sul tessuto della maglia e rimbalzando indietro con fare più impacciato e violento, scoordinato. E la gamba che riposa tra le sue diventa parte della gabbia. E' così incastrato che se lei fosse davvero seria sarebbe stato davvero un guaio. A ruoli inversi, si sente malissimo. Non c'è una via di fuga neanche per gli occhi. "scu-" sa. Interrotto dal disegnarsi di linee immaginarie sulle sue labbra, con quel dito ancora umido. S'accorge del labiale, può sentire l'aria espirata toccargli la pelle e diventar suono. "a-" Un sussulto, a cui segue il nascondersi di un labbro e poi l'altro dentro la bocca, il recupero di quei sapori ed il loro ripasso con la lingua. Il suo respiro successivo, affannato, diventa opaco e visibile. Non c'è neanche così tanto freddo. Se ne rende conto, e torna a riprendere il suo rossore. La voce, in quel mugolio, si fa impetuosa, con gli occhi brillanti. Non sopporta lo sguardo altrui. Cristalli induriti, come se non avessero ciglia, fissi sopra di lui. Gli impediscono di parlare. Di negare o attenuare la verità che hanno scoperto. In pochi attimi, gli sono intollerabili. E così prova a chiuderli con le dita della mano libera, come si chiudono quelli di un morto. Se riuscisse, troverebbe modo di deglutire e respirare, sciogliendo il nodo al suo collo. "Resta così" Non osare aprire gli occhi. Le mani spariscono, entrambe. La gamba si ritrae lentamente. Riprende posizione, ma lei non può saperlo. Sta scappando, finalmente? E facendoti chiudere gli occhi sparirà lasciandoti il dubbio che non sia neanche mai entrato, in casa. Che non abbia letto il messaggio. Andrà via riprendendo tutti quei succhi all'uva. Passano cinque secondi. Nene, hai ancora gli occhi chiusi? Allora può proseguire, tornare a muoversi. Ecco finalmente il primo segnale di vita. Il respiro, appesantito come se avesse freddo. E' ancora lì. Non c'è dubbio, anche perché il vetro non è stato mosso. D'un tratto, se avesse davvero gli occhi chiusi, allora avrebbe entrambi i polsi non afferrati ma guidati. Sollevate, tese, poggiate su qualcosa che si rivelerà dai piccoli dettagli successivi. Il freddo tessuto si gonfia un poco, quasi corrugandosi, insistendo verso l'interno. Un complesso itinerario può essere percepito, che lega a sè una serie di solchi allineati verticalmente. Una superficie liscia, senza grana o gran spessore. Le mani del marionettista poi la liberano, sparendo. Lasciandola libera e forse ancora cieca. Sì. Sono i suoi fianchi, che sfiora, in prossimità delle costole. Presso la stretta vita. Muovendo poco la mano destra su quella superficie potrebbe trovare un solco diverso dagli altri, ruvido e sensibile, una cicatrice da taglio. Non serve nascondere certi dettagli alla cecità di un cacciatore di taglie. E' semplicemente il suo corpo. L'addome, privato della canotta che ora cade e copre entrambi i loro piedi. [Vetrate] Ah, la morte l'aspetta. Il tempo rallenta e lega quel corpo ad una lancetta. Gli apici delle sue falangi si vestono di noduli d'energia caotica che si collegano alle estremità di quelle stoffe bollenti che si cura d'accarezzare. La schiena arcuata ha un fremito - anche le sue labbra sembrano inseguir il passaggio d'una bava di vento che le s'insinua tra i vestiti. Che reclama quei polpastrelli nelle vette più morbide di quello sterno. E' l'eterno che la muove. Un eone si disgrega in un pugno di secondi che ripercorre - ripercorre - ripercorre. Lo ha fatto, lo ha confuso? Gli ha dato quello che voleva. S'è fermata, ha rispettato il patto. Allora perchè ogni suo movimento sembra girarla verso tormente infinite? Le insegue, lo insegue. Salire, scappare, colpirla. Sussulta. Il liquore nei suoi occhi si fa' trasparente, una fessura migia crea l'utopica idea che abbia avuto sempre occhi di piombo così scuri, o così chiari? L'arsura nel ghiaccio appanna lo sguardo rendendolo frammenti, e poi nulla. Blackout. No, questo non è un blackout però -- però non chiedere scusa. Il palmo sugli occhi la rende cieca - e rende le sue ciocche nere un po' più disordinate. Si culla nel pensiero d'appartenergli, solo adesso, solo un po'. Il suo odore. Ah, sta meglio. Se solo non sapesse reggere il suo sguardo realmente, se solo fosse ancora lo stesso ragazzo che ha conosciuto qualche mese fa' per la prima volta - ora non sarebbe smossa dal panico di perderlo. Il teatrale riversarsi dell'angolo delle labbra verso il basso e poi, nella sua mansueta linea retta è sconvolgente - l'esteso malessere d'aver perso ed al tempo stesso vinto. "..." Dove vai? Fa' più freddo. Ah, bravo, scappa. Anche io sono brava a farlo. Anche io scapperei. L'ho fatto, e continuo a farlo. Non vedi? No, sei ferma. E tremi. E le tue mani sono aperte sul vuoto perchè rimanere senza di lui, t'ha fatto paura. Che patetica visione - la dolcezza del desiderio si fa' impura ed al tempo stesso, così puerile da disarmare. Non c'è più dolce innocenza del peccato, dicono - solo in esso possiamo specchiarci come umani. Le dita nel vuoto - le unghie laccate da uno strato di nero lucido sembrano rifugger la luce ed al tempo stesso, specchiar dieci suoi simili in differenti angolazioni. Il fruscio del suo passo. Il calore della sua pelle, della sua mano. Le labbra si schiudono - e non è sicura di volerlo deridere o piangere. Ma non c'è verbo ad osar valicar la sua bocca. L'attimo in cui dal nulla si riversa in un movimento non più proprio - si rivela a tener quel sipario di carne calato sullo sguardo. E' buio. Non le piace. Però lui è lì. E lui può accendere la luce quando vuole, a differenza sua. Brancola, fantasma disperato - e il suo levarsi della schiena dal vetro la riporta automaticamente a lui. Basta sfuggirci, basta, mi fai male. Ma continua ad incassar il dolore come se le proprie spalle fossero fatte e forgiate per questo, non è così? Quando si muove le spalle ritrovano una curvatura morbida verso l'interno. Il collo, affusolato e nerboruto - incassa quella minuta fossetta in giuntura al petto. Caldo. Trema. Pelle. " ! " Le labbra schiuse rimangono tali, vestite della meraviglia di una bambina d'innanzi al più bel manufatto. L'assenza di parole non è che infame preludio - di come le sue dita raccontino storie a chi ha orecchie per udirle. Sfiora la pelle, quel solco. Ah non è più sicura di non voler esagerare. A dire il vero, un bicchier di vino è stato versato a quel capezzale. Ed ora la sua tavola imbandita è rovinata. Il ridisegnarsi di quella cicatrice sotto i polpastrelli, e credetemi - l'esser terrorizzati a riaprir lo sguardo. Consapevole. Inconsapevole. Può. Deve. Essere egoista. Lei lo è - terribilmente - e vorrebbe esser capace d'esserlo di più. O forse no. Ah, non importa. Strimpella le sue costole come se fossero un arpa - come se quella cicatrice l'avesse chiamata. Le sue insenature più tetre si fanno paradiso di luci e cori, d'attenzioni. Ogni suo orripilante angolo, è il suo trono. Le appartiene. E lo adora, lo venera. " Voglio. " Essere Aozora. Che mi ami come se non esistesse null'altro. Come l'intero cosmo astrale che hai attratto fossi io - o forse le costellazioni che tanto ami guardare. E oggi? Ah, oggi non ci hai ancora pensato, vero? Sappiamo già che il gran carro sarebbe lì - ad osservarti. Sciocco pensare che lo giudicherebbe quando quello che fa' -- è crollare sulle ginocchia. Il prostrarsi a tanto, a tutto, a oltre. Sfrontato credere che il cambiamento sia possibile. Credere d'esser motivo di forza, o della vana ricerca d'essa. Ma Fuji, un verme, non lo è mai stato. Chi piange ad alta voce e chi lo fa' di nascosto - la differenza sussiste nell'aver le palle di farlo. Ed urlarlo. Ed accettar le debolezze, imparare a conviverci - fino ad adagiarsi. Arriverà il momento in cui il cammino proseguirà e forse Fuji, ha visto solamente qualcosa in fondo alla sua via. Oh, è vero. Anche tu hai fatto la guerra. Il respiro ora danza ad altezza ombelicale - e l'ombra rigettata dalle ciglia sulle gote sembra enorme. Indefinibile. La bocca schiusa ne cerca il solco più pallido, o più arrossato. Più o meno in rilievo. Lì dove cerchietti più o meno marcati hanno ricucito le carni. Trema, ed è facile comprenderne il perchè. Cosa vi ferma, una volta compreso quanto uno voglia l'altro? Quale piacere trovate nel masochismo di negarvi l'un l'altro. Il tenue schiocco delle labbra è un fulmine a ciel sereno. Le mani sui fianchi son un arma inesistente, inerme. L'umido passaggio del respiro lungo quello sfregio - probabilmente lo stesso che gli strappò di mano il coprifronte e la sua stessa ragion d'esistere, s'arresta nuovamente. E non ha più fretta di scappargli adesso. Scomoda. Piccola. Il dolore della pavimentazione contro il ginocchio nudo e livido la scuote. Sì, ha ancora gli occhi chiusi - ha ancora le labbra sul suo fianco. Ma non v'è schiocco o scoppiettii. E' qualcosa di lungo, silenzioso. E' qualcosa di suo - dove nemmeno Fuji è invitato. Scusaci. Il flebile muoversi delle spalle a stringersi ed aprirsi - a giudicarlo, sì, ma non come avrebbe pensato. Ha gli occhi chiusi, ancora, ferma. Le ciocche di capelli le adombrano in parte il viso - i tratti da volpe - le labbra a cuoricino gonfie ed arrossate. Appassisce contro di lui, e trova un nuovo vigore. Lo stesso con cui le dita s'allargano appena l'un dall'altra - le unghie lo pizzicano, ma non lo feriscono. Non ancora. Ah -- basta ! La mancina si leva, il petto lo sfiora distratto. Scusa, Fuji. Non sono brava a questo gioco. Il traballante ed incerto rialzarsi - imbarazzato. Non avrebbe voluto arrivare a tanto, lui - o forse ha continuato a darle i segnali sbagliati. Sfuocate immagini si ripercorrono. Il suo viso sporco - quello di lui. Stare bene. L'apostrofo, il punto e virgola d'una frase intera. Pigri promontori gli sfiorano il basso ventre nel rialzarsi - nel lasciar la porta della doccia aprirsi alle sue spalle. Ed una folata di freddo la raggela. Le spegne l'anima. Sarebbe divertente? " me lo strapperai di mano? " Il momento. Lui. La sua anima. La sua pelle. Lo sfilar delle cosce stride di pelle che si sfiora, che s'abbandona - di come lascia quella doccia investita da luci ed ombre. L'odore di pittura la inebria - e quando inspira, s'amareggia di non avvertir lui. Contro la sua pelle. Ansimante. Ah, non pensarci. Voglio continuare, ne voglio ancora. Ma so che me lo toglierai quando sarai improvvisamente scomodo. O forse no? L'esploratore di certezze ed incertezze la lascia mortificata, con un palmo teso verso l'interno della doccia. Vieni. Non ti lascerò andare. E la stessa mano offerta a lui - mentre indietreggia - si leva con la gemella. Lo chiama. Lo invita. Leva le braccia come una bambinetta pigra e capricciosa, replicando un cenno che si farebbe al proprio genitore, invitandolo a spogliarla di quell'unico abito. Di lasciarla inerme - per lui - da scoprire. O forse solamente ad armi pari. Se solo lei potesse spogliarlo ancora. S'è creata una nicchia tra le braccia che le adombrano il capo - i gomiti verso l'esterno nudi, le dita ancora sfumate di tempera. Deve avere un aspetto così innocente adesso, con quel rigo appuntito sulla tempia, e sulla gota. Quando il silenzio si ferma - e il pigolio della porta di vetro sancisce la nuova sfiga - le labbra rompono la fermezza immortale di questa marionetta difettosa. " Se solo tu mi desiderassi. " Almeno un po'. " Vorrei saperlo. " Sarebbe corretto? " Non penso che riuscirei a guardare tuo fratello allo stesso modo. Ma sentirmi desiderata da lui. Sarebbe abbastanza. Appagherebbe il mio capriccio. " No, è falso. La vede, soffrire della sua sofferenza. E' lo stesso tipo, ma non appartiene più ad uno o all'altra. Ed egli soffre del simulacro che getta la sua ombra sulla realtà della rinuncia e del dolore. Una strana ambiguità nasce dal farsi vago della linea tra le loro intenzioni. Sii un personaggio secondario per me. Ed io lo sarò per te. Pare che il suo sforzo nascosto lo stia in realtà preparando alla riuscita del gioco della vita, alla riuscita di un gioco scenico, alla vittoria della coscienza sull'istinto buio. Il loro rapporto si è presentato bruscamente come la perdizione del giusto, ma invece che evolvere e mutare sta rivelandosi per quello che realmente è. Illuminati dalla luce della ragione forse avrebbero preferito il buio che genera mostri. La soluzione la conosce. Dovrebbe solo smarrire la sua sincerità umana e ritrovarsi nello stato di concitazione fittizia in cui si porge solitamente per studiare il progetto di una marionetta morta. Ma così le farebbe conoscere altro tormento; gli andrebbe anche bene. Ma non accetterebbe l'idea che sia lei ad accettarlo. Diventerebbe carnefice. E condividerebbe lo stesso nomignolo dei propri occhi: Giuda. Sporco traditore, simbolo del traditore. Lui vuole essere il tradito, se proprio dovesse scegliere. Avrebbe dovuto chiudersi e contrarsi, sotto lo sguardo indagatore, ed invece le ha nascosto la realtà per diventare coraggioso. "..." Per un momento, nel suo soliloquio, fissandola, percepisce il terrore del veggente. Ella leggerà nel suo spirito le parole mai pronunciate, e lui non potrà che confermarle o ferirla. La spontaneità si arresta, lasciandolo immobile. Un terribile Bronzo di Riace, incapace di essere perfettamente immobile diversamente da loro. Incapace di essere impassibile a quella genuflessione. Perché mi contempli come fossi oggetto di pensieri più profondi? Non c'è nulla di interessante. E' questo che voglio dimostrare. Indipendentemente dal fatto che mi piacerebbe interessarti. Vuole? Cosa vuole? "Sì." A cosa? A tutto. Se i Kami amano le loro creazioni come il marionettista ama le sue, allora è certo che si impegnerebbero a dare ogni cosa. Non è per questo che il Grande Carro è lì, come monito del loro dolce sguardo? Il senso misterioso delle cose viene giustificato dal divino, lasciandogli come compito occuparsi delle cose ovvie. Ma le cose ovvie son ancora più complesse. Fissa le linee del volto altrui, le movenze di un corpo umano che feconda l'intelletto. Ed al contatto iniziale con la sua cicatrice rabbrividisce e impallidisce, mostrando in viso un'espressione d'esagerato dolore mal resistito. Come se stesse venendo prelevato il sangue dalle vene e dovessero infilargli l'ago. Così si impegna ad esser blando, fallendo. Per oltre quindici minuti la fissa, solleva le braccia, le riabbassa, gliele avvicina al capo e le dita s'agitano come se volessero afferrarla, muovere o allontanarla a suo piacimento. A volte la sfiora, a malapena, per errore. Come lei sfiora lui. L'importante è che gli occhi rimangano immobili, come due pietre. Sei cieca, Nene. E vedi tutto quel che gli altri non vedono. Ed io non posso nasconderti nulla. Nè il brivido nè il contrarsi dei muscoli dell'addome, o l'occasionale agitarsi dei fianchi come se fosse preso da un solletico. Pizzicata, la pelle si deforma un poco, trasmutata e arrossata. Debole al contatto fisico. Anche la voce, si stringe, raschia. Terribilmente verginale. Ci mette un po' più di quanto serva ad un qualsiasi individuo a tornar normale. Così come la sua espressione ritarda a neutralizzarsi quando lei si risolleva, riaprendo lentamente gli occhi e sfiorandolo con quel fragile petto. Quell'istante, quei quindici minuti dal retrogusto d'un secondo, sfumano immediatamente nella domanda che segue. Le strapperà di mano qualcosa? Gli occhi si spalancano un poco. Forse dovrebbe rimanere dentro quella doccia. Se lei esce lui può chiudersi dentro. Ha già dato tanto. Ne è testimone la pelle livida, gonfia. Sarebbe difficile uscire da solo, muoversi agilmente-- no. Basta cercare la ragione, quando non ce n'è. E' stancante. Stupido. Un po' come lei. Allora tanto vale cercar lei, se è così simile alla ragione di cui parla. Ecco, lo stai facendo di nuovo. "..." Prende la mano, lentamente issa una gamba e la porta fuori. Poi, l'altra. La schiena rimane arcuata, cercando la massima stabilità dal suo solo sostegno. Poi, il passo s'arresta. La pittura punzecchia le narici, portandolo ad arricciar il naso. Il tempo d'abituarsi e le mani sollevate lo distraggono. Ah. Era un turno a testa. Ha senso, premer sulle maniche e sollevare le braccia perché quella larga veste scivoli via. La avvicina al viso, inspira, poi la fa cadere gentilmente tenendola fino all'ultimo per il lembo d'una manica. Fissando l'indumento appena abbandonato riceve un messaggio strano. Spiacevole. Suo fratello. Ancora. Il prurito lo prende sotto pelle, in soddisfabile. Non gratta neanche, diversamente da una giovane Icaro conosce già l'inutilità di quel gesto. Soffre senza suono, mostrando solo la pelle rialzata come se fosse stata pizzicata da minuscole dita. Brividi. Se solo la desiderasse- allora andrebbe bene? Almeno non vedrebbe suo fratello allo stesso modo. E' perché io sono speciale? O lui? O tutti gli altri, tranne me? Non può mai rispondere sapendo di essere guardato. E allora proverebbe ad allungare le braccia dietro i fianchi di lei, sistemandoli al coccige e tentando poi di spingere a lui. Il prezzo da pagare per non esser visto è che le carni si tocchino, nude. Addome, petto, vita, cosce, e.. "Non sarebbe scorretto. Come te." Non risponde, ma risponde. Lo fa con il busto piegato in avanti, ben schiacciato su quello di lei, per far si che il viso possa facilmente trovarsi oltre la linea delle spalle della Doku. Così da non vederla, non vedersi. In una posizione tanto fragile che basterebbe una debolissima spinta per fargli perdere l'equilibrio. [Vetrate] Se avesse un mostro nel petto lo divorerebbe - non avrebbe esitazione alcuna nel farlo. Forse è per questo che la pelle di Fuji s'è agitata tanto? Ah, si. Forse per questo lei per un frangente solamente - s'è spinta a schiudere le labbra e spingerle contro il suo fianco. Catalizzatore d'odio e dell'altra faccia della medaglia d'oro. Indicibile. Svergognato. Il passo di Fuji e le mani che non osano sfiorarla nel portar alla luce vergogne e segreti. Se solo fosse capace di vacillare, proprio come lui - se solo avesse l'insicurezza di coprir la propria epidermide. Se solo lui non affondasse il viso di nascosto in quel drappo, dandole una marea di risposte che nessuno vorrebbe davvero avere. Le costole paiono una minuta lira che si spinge a riverberare nell'immagine di lui - di quella giuntura tra metallo e pelle. Nella linea del suo mento - delle ciocche che gli carezzano le guance e parte del collo. Le labbra cantano d'un fremito il cui flusso viene fermato da quello di bugie incoccate per fargli male - o per dargli fastidio. Perché lo fai? Devi essere sciocca, complicata, egoista. Lo è, tutte e tre. Stava per smentire, per confessargli ogni reato di cui si è macchiata. Anche il desiderio è un reato, se ci pensiamo bene - quando le stelle torneranno visibili ed ogni azione sarà solitaria e ben nitida - questa felicità suonerà solitaria ed errata. Ma no, la ragione non la veste. Soprattutto quando lui è così vicino da nascondersi sotto il suo naso. Che astuto, Fuji. Rimane inerme davanti alla decisione, e quelle braccia le mischiano le viscere ancora un po' dopo averle condite di nuovi pensieri, immagini, sentimenti. "..." Il respiro danza folle sulle labbra, e non è certa più di poterlo perdonare per la sua innocenza. Per come le avviluppa i lombi. Il fremito che le da' la sensazione di pelle contro pelle - che violenza inaudita ! Per un attimo potrebbe sembrare soffrerente - ed il petto nascosto nel fragile indumento ch'è la bralette si leverebbe ad aderire perfettamente nei suoi spigoli e nelle sue curve. Lo cerca, si nasconde in lui, lo trova. Se allungando la mano non riuscisse ad afferrarlo tuttavia - non se ne farebbe un cruccio. Così come nel metaforico, non lo rende colpevole di non-desiderio. Smentisce. " ah. " Un vagito secco le lascia la bocca, scondito di scontatezza e vestendo lo stupore. Cosa mi ferma adesso? Cosa mi spinge a rispettarti, quando t'ho compreso? Si sta bene nella propria nicchia sicura ? Esci, ora. " Fuji... " Minute spalle s'incavano, ripercorrono il suo passaggio oltre esse - oltre monti pallidi che orchestrano l'ascesa delle braccia ad alloggiar sulle sue di spalle. Nasconde il capo tra esse, adorna il proprio viso di ombre - pensieri - parole. Ma il sospiro con cui pronuncia il suo nome non è abbastanza? Non ti nascondere, ti prego. Non a me. Non ai miei occhi. Tra le ciglia un azzurro cielo trova rifiato e controllo, forse - o forse è un amabile illusione ? Se lo sente. È così. L'infrangersi del respiro sulla pelle la porta a prender in ostaggio una ciocca corvina sulla sua nuca. Ci gioca. L'alliscia, la curva, sevizia. La rotea attorno ad una falange fino a creare un solo riccio nella matassa d'ebano. Se ti nascondi, come faccio? Però le braccia attorno al corpo la fanno stare tanto bene che - ah, giuda. Ha abbassato le armi. E il suo costato è nudo. Ammazzami. Il pensiero la vede sulle fila di una guerra in corso, pronta a brandire null'altro che le sue mani. Pronta a gettarsi nella folla infervorita, come unico modo per salvarsi. Paradosso. Rabbonisce il proprio labbro dal tedio a cui è stata sottoposta lasciandoci un invisibile strato di saliva. Tornano lucidi, i suoi petali - tanto da spingersi a nascondersi in lui a sua volta. Lo sfiora. La clavicola. Il trapezio. Disegna l'itinerario che le ha dato e che s'è tolta. Che giogo. Scappa, la trova, si nasconde. Smettila, l'ho già chiesto. Il disegnarsi dell'osso e della pelle più o meno tesa sotto il proprio respiro corrotto. Celere. I lombi sotto i suoi palmi sono corde d'arpa pronti a tendersi, a spingerla ad uscir dalla sua nicchia. Solo soffiando sulla sua casa di paglia. "..." Ah lo schiocco. Basso, inesistente. Il suo collo. Questo è la vittima sacrificale verso cui schiude le labbra ripercorrendo la giugulare - e le sue parole. Scorretta. Lo è e lui se ne è accorto. Sorride. È vero. Non può mentirgli perché - perché se ne accorgerebbe. Come quella volta in cui ha cercato d'evitare le sue domande. Annuisce allora, dandogli la piena ragione di quel che dice, accettando la sua pena - certamente - ma senza alcun cruccio. "È necessario, a volte." Essere scorretti per rigirar il gioco. Capire. Ed è vitale comprendere Fuji per poterlo toccare, per potergli donare qualcosa che sia proprio - e per stargli così vicino con il cuore leggero. L'iride si mischia con le luci di una notte inoltrata, la luce spenta del pomeriggio ora diviene gioco bagliore di luna - ma paradossalmente quelle vetrate aiutano a non nascondere niente. Non c'è nemmeno un ombra le che faccia realmente paura, più di quanto le faccia paura lui. O uno dei molteplici finali. I fianchetti si sollevano, le labbra s'inebriano della sua pelle. E le dita, hanno confessato azioni indicibili. Consolato. Coccolato. Rassicurato. Arricciare una ciocca attorno al dito s'è tramutato in carezze puerili. L'illibato passar dei polpastrelli in grattini che vedono territorio d'esplorazione la nuca e la parte alta del capo, ora ricurva ad adombrarla. "È impossibile." Sussurra, perché urlare adesso sarebbe veramente inutile. L'ululato del vento quasi copre l'invisibile muoversi delle sue labbra. La solerzia con cui gli rivolge un discorso scontato. Smentisce, ah, che sciocco. Potevi arrivarci da solo. " Dare il tuo posto a qualcun altro. " Non ci riesce. Non c'è riuscita quando ha pensato di dar il trono e il fardello dell'Eiyuu a qualcun altro. Sarebbe meglio, ne è cosciente. È sbagliato, ne è cosciente. Non dovrebbe metter disordine e poi ordine, così ostinatamente. Allora lo consola, lo rassicura. Ah, ti faccio arrabbiare. Ti sta bene. O forse no, stavo solo esagerando. Le labbra gli mostrano un corollario d'insenature nel posarsi in quel fazzoletto d'epidermide sotto il lobo dell'orecchio. Il vacillare della voce la rende fragile, o adamantina, a tempi alterni. Il suo muoversi, allungarsi - creano una serie d'incidenti. La punta delle sue dita s'infrange contro il bordo corvino dell'intimo. Il margine straripa, e le sue dita, si trovano obbligate ad una scelta di mezzo millimetro di differenza. Caldo. Fino a non poter respirare più. Le labbra sussurrano, vogliono - e lui ha già detto si. Come può toglierle questo? Con quale coraggio, cuore, spietatezza. Il mefistofelico amore che gli rivolge, quelle cure con cui lo rende certo del suo posto nella sua vita - traballano e si stabilizzano. Ancora. Un po' meglio. Se è vero quello che dici, che professi, ah -- allora. Vai oltre. Se solo avesse aspettato, avrebbe donato qualcosa a sua volta - e l'avrebbe donato a lui. Ne è certa. "Puoi...?" Eccola, la fioritura. Il fremito con cui si professano gli intenti e non più le ipotesi. Fallo. Puoi? Se solo fosse solo quello... Vorrebbe. Ma non è così. Il cuore canta melodie di cui si spaventerà domani, come fa' sempre. E forse il suo eroe renderà tutto meno pauroso. Le ciglia gettano quesiti ed interessi sul bilancio che pende sempre in suo favore. Vorrebbe. Può? Ha solo bisogno di aiuto. Di un attimo. Di respirare. Le dita fermano quelle mosse e discendono sulla nuca nuda di ciocche, sull'apice della schiena ricurva. Polpastrelli che contano le vertebre, tre, quattro. La sue pelle, la veste bene. La vestirebbe meglio. Ma le va' bene. Il suo profumo, quello della sua carne, la spingono a chiudere gli occhi. "Vuoi...?" È il momento giusto. Hanno straripato ed entrambi, hanno accettato la cosa. Puoi farlo? Sarebbe okay. Lo vorrei. Si abbandonerebbe. Finirebbe di esistere, di cercarlo, di cercarsi attraverso i suoi gesti. Espira, straziante, delicata. Una mano s'abbassa, nel supplichevole desiderio di muover il proprio turno con una lentezza disarmante. La mancina gli carezzerebbe il braccio di carne ad altezza dell'avambraccio facendolo decadere oltre la stoffa. Oltre quel promontorio pallido e rosato. Vuoi? Ah io si. Ma l'ho già detto. Non hai bisogno che lo dica ancora. Indaga. Lo lascia andare - immobile. Si nutre di polline e sale. Gli basta respirare quella quinta essenza sparsa nell'aria per sentirsi infinitamente pieno, affaticato. Troppo. Languisce di dolore. Ed animato dal silenzio eterno dell'Oasi, lo strumento armonico del corpo si fa gigantesco come onda e giunge alla terraferma, propagandosi e divorando anche quel paio di colline. I remi nelle mani s'abbassano un poco ed i gomiti s'aprono, dando l'illusione che a lei spuntino fiacche ali dal coccige. Ma, infranta l'onda, non c'è l'immenso rumore atteso. Si sentono pochi suoni discordi dalle sue labbra, che vanno affiocandosi, spegnendosi. Gli strumenti dello spirito vengono meno ed il congegno prodigioso del cuore s'allinea alla frequenza vicina. La testa cade un poco in avanti, scagliata su una spalla come fosse acqua su cui galleggiare. Con parte del corpo esposta, ma abbandonata. L'importante è nascondere gli occhi; un po' meglio, un po' di più. Ecco, nascondili nell'incavo di quella spalla, schiacciando un po' i suoi capelli coi tuoi. Sembrano sanguinare le sue ciocche, sangue sempre più fine che s'immerge e viene assorbito da altro sangue. Non il proprio. In pochi attimi si forma una nube nera, ma non può vederla. Quando viene toccato dalle labbra sente immediatamente il rostro del suo avvoltoio nel fegato. E' il peso del sacrificio, deve resistere. Per proteggere chi, poi? I suoi occhi? Istintivamente i muscoli si contraggono, il mento s'incavano tra collo e spalla, poggiando con violenza le labbra per emettere un canto soffocato. Sa che lei preferirebbe vederli, gli occhi. Sa che in ogni ora bisogna sperimentare, lottare, affermarsi, accrescersi, contro tutti. Sono in guerra. Non esitare, non dare tregua, non ne avrai neanche tu. Così gli viene ricordato che a volte essere scorretti è necessario, ed un istinto belluino lo prende. Bisogna che lui vinca, in quanto Eiyuu. Alla sconfitta conviene l'abito del carnefice. In certi momenti, in terra, non c'è nulla di più spietato di lui. "E' vero." Il suo arco ha per nome le sillabe appena pronunciate e per opera la morte. E la sensazione delle dita ha in lui qualcosa di dionisiaco. Un momento di delirio chiuso in lui, personale tanto quanto lo è stata una delle sue cicatrici, terribile come se contenesse la montagna incendiata dove urlano e si divincolano senza fine le folli menadi, partite alla ricerca del venerabile. Stupito di rimanere immobile di fronte a quelle domande, a quel gesto. In realtà, dovrebbe essere terrorizzato. Il fiato dovrebbe farsi ansimante e l'equilibrio dovrebbe venir meno. Dovrebbe star cercando l'arresto della coscienza come via di fuga. Vuole? "Io.." No? Nodo di saliva. Ha già deciso di essere un po' egoista. Ha deciso di essere un po' scorretto, come lei. Spera solo di non esserne troppo capace. Anela al fallimento. Come se quella guida fosse stata una spinta accelera nella direzione proposta, sfiorando un percorso che sembra avere una sola direzione. Il medio è protagonista. Non intenzionalmente. Indice ed anulare si piegano appena nella prima falange, diventando acqua e seguendo la curva dei monti. Parla contenendo la sua voce, sentendo il bisogno di scappare. Ha bisogno di esprimere le alte visioni dell'arte manifestata. Ha tutto da creare: l'universo. Non gli serve versare la sua sostanza in impronte ereditate. La sua opera è replica, ma anche invenzione totale. Non deve e non vuole obbedire se non al genio del suo istinto. Si sente anch'egli, per un momento, una creazione. Compiuta da un creatore formidabile, gigantesco in mezzo agli uomini. Le labbra si serrano sul robusto mento, armate di sensualità. Il vento crudo agita la nuca e l'orecchio livido, col lobo gonfio. Nene è una roccia di granito in mezzo al mare, e lui è un artefice che vuole costruirci un tempio che accolga la violenza dei flutti. Se le piace, dev'essere bello. esplora, il protagonista, passando per il canale, tra i muri, cogliendo qualcosa negli interstizi del mattone e gettandosi dinanzi alla porta. L'offerta è troppo poco esigua e non ha modo di rifiutare senza annullare ogni sforzo eroico già compiuto. Gli occhi, intenti, si rivolgono al distante interruttore della luce. La mano fatta d'ingegno, simulando gelosia, scende per seguire la gemella. In verità, in quel gesto, v'è il separarsi del dito indice che viene puntato silenziosamente all'interruttore. Il chakra scorre da lui come spada sguainata dallo spirito, scavando una fossa tra le carni per raggiungere poi la mano meccanica. Un filo di chakra. Invisibile. Sottile. Terribile. Non se ne accorgerà mai. Il filo s'attaccherebbe all'interruttore, premendolo con delicata violenza e spegnendo ogni luce. Solo lui conoscerà le sue colpe, così spera. Ma a volte è necessario essere scorretti. Eccola, la fioritura, il fremito. Ennesima scusa per simulare agitazione con la mano di carne e premere sulle carni. Lei ha paura del buio. Ed allora potrebbe non aver più bisogno di piacere, ma di aiuto. Di un eroe. Subito riporterebbe indietro la testa e troverebbe il coraggio di fissare il poco visibile, sollevare le mani e cercare di prendere le sue per renderla partecipe della sua presenza. "E' saltata la luce." Pronuncia, basso, sussurro tra le labbra strette. 'Sono qui' dicono le mani, stringendo le sue. "Ho una torcia, in camera." [Panico] Vi ricordate l'impeto di colpire il vaso di fiori? Ah, s'è immaginata d'averlo colpito per un attimo. I cocci sono nudi e spigolosi petali sul pavimento in parte - ed in parte sul tavolo ligneo dove ricorda ombre. Due posti. Dita che l'ancorano al divano che ora è nascosto da qualche parte - sotto al cellofan. Non c'è nemmeno più Aozora. E' sicura d'esser stata mal giudicata da lei, a volte. Una musica danzante incalza, riverberata e baritona. L'uomo che ha davanti non è lo stesso. O si? Poteva respingere. Lasciare che il tempio in mezzo alla mareggiata da lui eretto in suo nome possa rimanere solo arido granito. Paradossalmente mai sfiorato. Trasale. Fucila l'organo d'esso come se fosse l'unica a poter emetter il verdetto giuridico sul da farsi - come schiude le labbra contro il minuto triangolino del suo collo. Come il sangue scorre, infame, la illude -- depista il raziocinio devolvendo il sangue ovunque tranne che al cervello. Ah, non potevi scegliere momento peggiore. Dunque le dita s'aprono, speculari a quelle del marionettista - e se esser velenista è forse la più becera e riduttiva delle sue mansioni, non è forse il termine che la descrive meglio? Come il collo s'arcua, la schiena s'inarca. Lo prega, chiama, voci corali ubriacano il suo nome su labbra alcoliche. Folle, folle ! Si trova a danzare per compiacerlo, compiacersi, compiacere la platea che guarda inorridita. Il pallore lunare è un ancora a cui aggrapparsi, la luce che la nasconde all'ombra delle sue ciocche. La pelle si contorce ed il tatto si rende complice del suo ossesso. I fiori sono rovinati. Oramai. Ma loro, continueranno a sbocciare? Ah che dolore non potere stringerlo. Che dolce sofferenza, ma non ha già scontato la sua pena? Il lamento delle sue labbra si fa' complice di quello rauco di lui, quel vociare - quel piccolo e insistente vagito che esce lamentoso. Zuccherino. Contro il cuscino. Ah, no - la voce si libera e la fioritura - non può che partir dallo sbocciare del suo petto. L'Alarico figuro di una minuta spallina che affronta la tormenta - l'osseo sporgersi delle curvature e perire eroicamente oltre la curvatura d'essa. Ora può vederli i suoi fili animarla? Filamenti le issano il petto, tra ombre e luci i suoi più dolci movimenti. Decolletè che s'issa - insegue una mano invisibile. Sospinta. Inseguita. Ah ! " ! " S'allunga, trasale - e quei fiori - non hanno mai avuto importanza. Perdersi. E annullare il male. Ora non sembra banale, non sembra una pessima idea. Le sembra di aver voluto esagerare, di aver desiderato di più - e di avergli donato tutto. Tutto l'amore che ha. E poi, tra le vette apriche -- il nemico la chiamò a gran voce. Rullo. Tempesta. Gelo. Tutto si è fermato ed è rincominciato da capo. Lei è nuda sulla sua scrivania. E lui abbassa lo sguardo davanti al movimento delle sue mani. L'oscillare delle costole aumento, si fa' furioso e sconsiderato. Muove le carni in un veemente danzar in alto, in basso, in alto. Fermati. Blackout. Questa volta davvero. " a-- " Vocalizzo che le anima bassi già uditi. E per quanto provi ad osservar il vuoto, non può far a meno di tremare. Dove sei? Lo cerca con un impeto violento, nel vuoto - ma il raziocinio l'ha spinta a fare un passo indietro. A render le sue mani sfuggenti. Le braccia deboli. E le sue ginocchia tremanti. Oh, mi sei mancata angoscia. Il suo aguzzino ride di lei - e riderebbe del suo essere. /Non venirmi a raccontare storie su chi è forte e chi è debole perchè te fai parte dei secondi./ Il primo lampo la piega, nero e funesto - le trancia le ginocchia sbilanciandola verso l'esterno. Rifugge. " ! " Il nemico imita la voce. E pare Fuji. Stai ferma, farà meno male. E passerà in fretta. Gettati in ginocchio, sarà contento, smetterà presto. Un basso lamento è l'angosciante preludio di quello stridio - di quelle unghie che fendono il vetro. La dilaniano. Una carezza, un ombra d'essa - le vuole afferrare le mani e bloccargliele dietro alla schiena. Vuole spingerle la faccia contro la parete rocciosa della trincea, e sussurrarle quanto poco valore abbiano le nuove leve. A stento t'hanno insegnato a lottare. Nessuno ricorderà il tuo viso, il tuo nome. Sempre che una serie di lettere e numeri possa definirsi un nome. L'audacia della mancina si sposta violentemente verso il petto - il calore, l'idillio, la pace. Aveva trovato la sua oasi. Ma è successo qualcosa. In realtà, è ancora in piedi d'innanzi ai fiori. Sta per abbattere la mano. La veridicità dei fatti esula la mente fragile di KK21 che abbatte il proprio metacarpo contro l'arto meccanico. Lo ripudia. Si ripudia. Ha paura. " Non mi toccare! " Il fremito della voce è paradossalmente simile a quello con cui l'aveva invitato a sfamarla - eppure, si flette alla volta d'un altro tipo di terrore. Ah, ti prego, stai lontano. E Fuji ora dov'è - deve avergli fatto del male. Le costole s'aprono sulla schiena ed un aquila di sangue dimostra al popolo norreno - la forza interiore di chi era regina. Un tempo. Prima di volgere alla morte. I passi la vogliono far indietreggiare - sottrarsi ad ogni costo, inorridita - spaventata. " no- ti - prego -- non voglio " Una torcia. Ah. Lo conosce questo trucco. Vuole prenderla in giro. E la cecità la porta ad avere occhi sbarrati nel buio. Se lo avesse colpito - ora il polso le farebbe tanto male da starselo reggendo con la gemella. Nascosto e tenuto composto tra indice e pollice. /Sarei stato io il tuo collante/. Ah, auguri. Davvero. Granelli di sabbia da incollare. Minuti frammenti di cristallo, o granito. Patetico. Però ora si parla di sopravvivenza, e lei - dopo un incipit di paralisi, capisce che fare. Deve ammazzarlo. Deve dimostrare a tutti di non avere bisogno d'aiuto. O forse sì, ma non razionalmente. Corre, di scatto - scappa a presa, braccia. Lascia la nube del lascivo alle sue spalle chiudendo la manopolina del gas in cui si stava asfissiando volentieri. Via. E' buio. Non vede. Le palpebre calano a nasonder le ombre, preferendo l'inconsapevolezza al dubbio. " EIYUU! " Disperato, assonante. Il suo nome nella gola viene urlato, forte tanto da storpiarne l'inclinazione. Lo abbaia, ulula - ed è il disperato tentativo di trovarlo. Ma mentre scappa - l'uomo le colpisce il ventre. In vero l'urlo del tavolo ligneo le zittisce il respiro, la porta a cadere - in rimbalzo al tavolo. Ah ora sì, i cocci di quel vaso minacciano di cadere - traballano, ruzzola morente il fondo del vaso - trovando finalmente il proprio dirupo. La scogliera. Ed i propri resti. Dopo quello, venne il silenzio. Il respiro di KK21 non è più lo stesso - ed il cuore fragile, manca qualche colpo. Ah, va bene. Sa' come va a finire questa storia. Voleva solo -- lui? Morirci dentro. O l'opposto. E ora Fuji l'ha lasciata sola. Va bene. E' una fine che fa' per lei. Ma vorrebbe aspettare il sorgere del sole - le luci dell'alba sono maledettamente sceniche sulla sua pelle nivea. Il buio. La luce che la batte di sbieco. Fuji può vederne gli occhi immergersi spenti e vacui - totalmente anneriti da un sipario invisibile. Il pianto procede silenzioso perchè ha deciso che non farà rumore. Non piangerà il nome di Fuji. Non lo macchierà con se stessa. Ah, spero solo che tu sia vivo. Dall'altra parte del fronte. Spero che tu, tra le braccia di -- , possa ricordarmi. Sono egoista ed orribile, merito la morte. Merito che Nobu sia disgustato da me, e che si vergogni di quello che sono. Le fa male il ventre - ed anche la mano. Le ginocchia sembrano più stanche, tutte di botto. " ... " Un singhiozzo rompe il silenzio, nascosta per metà sotto il profilo del tavolo - con le gambe. " Eiyuu..." Oh no, aveva pensato di non chiamarlo. Ma il proprio pianto è penoso, e la mente continua a voler prenderla in giro. " Eiyuu ?? " E allora lo chiama, con le gote arrossate ed umettate, con un filo di voce distorto. Riverberato dalla trachea schiacciata. La tragedia si condensa sulla radice dei capelli diventando gelo, anime che entra attraverso quei minuscoli pori. Uno spirito di vita corre per la solitudine, un filo di chakra azzurro capace di commuovere il silenzio, immobile e vittima di una volontà naturalmente distorta. Vuole metterla in difficoltà, essere scorretto, scorrettissimo. Far si che quell'animo si abbandoni tutto come una foglia ad un turbine ed esser rapita dalle sommità dei suoi tocchi. Ecco, cosa. Smettila di animarti, Nene. Torna ad essere la marionetta che ho promesso di curare come curerei Aozora. Devo essere io a dettare il ritmo, altrimenti perderei il sorriso. Ah, lo ha perso comunque. E le immagini della vita evocate attraverso ogni piccolo movimento sembrano adesso perdere di colore, con lo spiro della vita che sfugge dolcemente per unirsi ai venti diretti ad Est. Era disposto a diventare un carnefice, ma non avrebbe davvero fatto cadere la pesante lama della ghigliottina sul collo. Con sforzo si sarebbe accertato che la lama giungesse al massimo a sfiorarla, far cadere un rivolio di sangue e lasciare un graffio di cui si sarebbe poi preso cura. Invece l'ha quasi decapitata. Così vicino all'opera ambita, è riuscito a rovinarla. Invano gli odori dolci e ebbrianti provano a ripristinare l'equilibrio del momento precedente. Era meglio fare una scelta che avrebbe ferito chi c'è e chi non c'è, che questo. Non mi toccare, dice lei. Il colpo sul dorso della mancina non lo sente fisicamente, ma gli vibra per tutto il corpo e raggiunge gli occhi, facendoli tremare. L'orrore dell'assenza, il peggiore dei mali, lo pervade. Non c'è niente che ci rende più deboli della solitudine. Ed ora lei non lo vede più. E' con qualcun altro, qualcuno di terribile. Lei non lo vede più vivere, il suo fiato non può raggiungerla e certamente non proverà a sfiorarla. "Ne-" ne. La voce si strozza. Ha fatto ciò che non andrebbe fatto. Ferire prima di essere ferito. E per cosa, poi! Non gli viene proprio in mente, a pensarci. Il braccio sollevato mira a lei, la fissa dagli spazi presenti tra le dita, poi, si ferma. Gli occhi rimangono spalancati come a vedere una scena dell'orrore, quando viene chiamato il nome dell'eroe. La melodia si è disciolta nell'ombra delle cose tra loro allontanate. Sembra di essere in guerra. In quei momenti dove si può solo osservare l'esito negativo delle proprie azioni. Il silenzio non attende se non un clamore di trombe imperiali. Si guarda attorno, alla ricerca di qualcosa. Qualcuno gli dica cosa fare. Non trova niente. Il sordo impatto a terra di lei lo desta, gli fa fare un mezzo passo in avanti. Così confuso che non sa se è il caso di poggiare il tallone a terra. Non può neanche reggere quella posizione a lungo, deve fare qualcosa. Se solo la aiutasse, rivelando il suo maleficio, le toglierebbe quel momento d'orrore. Ma allora i suoi occhi farebbero straripare ogni cosa. Specialmente le sue colpe. E allora lei saprebbe che non si tratta di un eroe. Non si tratta di nulla. Neanche di Nene. Neanche di Saigo. Saprebbe che il vero Fuji è quella cosa terribile che gli ha impedito di ucciderla quella notte. Il vero eroe è il suo più grande nemico, è l'entità. E' sempre lei a prendere il controllo per rimediare alle fatiche. Il bronzo diventa consunto, il marmo disgiunto, tutte le cose vengono oppresse dal peso del tempo. Perfino il cielo è certamente lacerato, in questo momento. E kagegakure non è più che una città enorme e sola, senza più di due abitanti. Quel pianto penoso gli fa schiudere la bocca, pronto a lasciare un urlo disperato. Ma non esce nulla. Eiyuu. Eiyuu. Voce che si ripete, ancora e ancora. Il mondo perde valore. La filo di chakra che s'allunga verso un bottone è il suo abbandono della felicità. Si fa un poco pallido, prima che il pulsante venga premuto. L'inattesa disillusione gli ha lasciato nel cuore una traccia. E mentre la Saracinesca metallica inizia a sollevarsi, per riempirli delle luci notturne, lui prende posto a terra, affianco a lei, estremamente vicino, alla distanza perfetta perché manchi mezzo centimetro a toccarsi con le spalle- o con le braccia. La sua caduta è pesante. Non che faccia male. E' solo carne. Il viso è rivolto al soffitto. Le luci notturne iniziano ad investirli, rivelandoli. "Sono stato io." A spegnere le luci. "Non volevo scappare." Gli eroi non scappano. E' una condizione necessaria ma non sufficiente. Insufficiente, Fuji. Ecco a te il tuo voto. Attende senza parlare e senza guardarla. Non si ode se non uno sciacquio fievole su i vetri. Ha iniziato a piovere. Fermati Fuji. Fermati adesso. Lui, però, non vuole avere rimorsi. Anche se ciò lo rendesse meno umano. Ma sai già cosa sei, no? Ti manca solo il coraggio per affacciarti tra le cuciture. Sente salirgli le lacrime ai cigli. E quel velo schiarisce le due Perle nere, facendole schiarire. Ma per fortuna, non cadono. "Ti ho illusa" Spinge sull'addome per sollevare un poco il busto, ribaltarsi perché tutto il corpo sia poggiato su uno dei fianchi, rivolto a lei. Un chicco di riso straripa dal destro. Non sarebbe dovuto cadere, in sua discolpa. E rimane impassibile, nessun muscolo si contrae sul viso. "Volevo piacerti un sacco" Fissa il petto, quelle due colline. Il cuore gli batte, ma non di un sentimento convulso o misterioso. Si sente come se l'avesse ferita mortalmente. "non volevo ferirti" "volevo ferirti" ripete parole già dette. Con lo stesso tono. La stessa cadenza avuta quando qualche ora prima si sono parlati, prima di entrare nella doccia. "però" / "Non andartene" "Non saprei come fare" [Panico] L'annerito organo al petto fa' del torace una solitaria cassa acustica; Oh come mi duole, mio amato lettore - ch'è il mio amato è morto. Deve essere morto se non risponde al mio pianto, al mio lamento. Il suo nome sulle labbra sembra avere un gusto diverso, il disperato bisogno dell'unico capace di spegner il buio - e dar la vita a microparticelle nell'aria. La fiducia, la speranza; lo specchio della propria anima riproduce la saltellante pellicola di verità che vive in un parallelo in solitaria. Ha voluto farle male - e lo sappiamo già, ma lei lo vive ancora. Lo vive quando si spegne la luce per sbaglio. Il frangente in cui l'ombra si getta su di lei - e nessuna pozza di luce sembra comparire per salvarla. Il buio pesto. E più spalanca gli occhi, più non riesce a vedere al di la del proprio naso. L'infamia di torrenti salati le bagnano prima le labbra - e poi le tempie, mortificandone l'aspetto. Voleva solo stare quì, con lui, le sarebbe andato bene. Lo aveva promesso del resto, no? E allora perchè, il cadavere sdraiato accanto a lei - le sta confessando realtà indicibili? La luce che invade la stanza la vedere annaspare per risalire sul proprio sicuro giaciglio. Negli angoli e nelle tende, deve essersi nascosto. Ma almeno la voce di Fuji la culla. Se sto morendo, lo ammetto issando ambo le mani: Mi va' bene. Le parole di Nobu le risuonano nelle orecchie e lasciano un immagine residua di una se' stessa differente, meno importante, meno interessante, meno forte. Il polso che l'ha colpito al buio - ora si bagna di rossori che presto diverranno lividi. Ben le sta. Le fa' male. E non è questo a rendere tutto più reale? "..." Ah, ma le sue parole la spingono a scuotersi dal torpore irreale, ad ammansire il respiro. La gola. Che stupida. Deve esserlo. Lo ha colpito? Ah no, quello non era lui certamente. Ciocche come piume nerine s'aprono sul pavimento. Ed i cocci del vaso la vedono fletter il proprio animo a prostrarsi alla sofferenza. Diletto, amore, beltà. Sarebbe orribile se ora piangesse per aver rovinato qualcosa che era già in parte distrutto? Anche nella distruzione c'è la bellezza. Che sofferenza contemplare l'accettazione di qualcosa che non sarebbe dovuto esistere ma che ora inevitabilmente c'è - è lì. Un po' come le verità. Attonita da esse rimane zitta, forse un po' confusa. Forse comprenderlo ora, è un po' più difficile del solito. "..." Non esce verbo ne rumore. Le labbra ora chiuse sono rivolte al soffitto, come se fosse esso il proprio interlocutore. Ah, devi esser stato cattivo. Meschino. Sadico. Le motivazioni che l'avrebbero spinto a tradirla - e rivedere ciò che aveva già visto - vengono meno. Come quando s'incappa in una scena orribile e inconsciamente, si ha il desiderio di rivederla. Impossibile. "Devo essermelo meritato." Deve aver fatto qualcosa per farlo arrabbiare. Deve averlo obbligato, messo all'angolo. E pure - pensava di aver fatto tutto correttamente. Ha probabilmente frainteso i suoi occhi. La sua bocca. Per un attimo ha pensato di aver visto in lui, il baluardo del proprio desiderio. Delle proprie labbra sulle sue. E s'è sentita anelata, ah, stupida! Il palmo dolente s'issa e si batte la fronte. Si picchia. Ancora. Poi il viso che s'arrossa. Una lacrima abbandonò quelle nuvole nere e lei credette d'affogare per lunghi istanti. Il rotto e piagnucolante respiro è ancora unto del suo nome, quello con cui lei lo ha battezzato. Un eroe non scappa - no, certo. Un eroe fa' del male solo se in obbligo, solo per proteggere e proteggersi. Ah, capisco. Allora il movimento si fa' più violento, ed il viso inizia a dolerle. A darle sollievo. Non c'è rimedio per l'idiozia, ed aver sbagliato - è imperdonabile. Scusa. Non lo dice, la troverebbe penosa e lei odierebbe sembrarlo ai suoi occhi. Più di ora. Anche Fuji, probabilmente, dovrebbe fare un passo indietro. Dovrebbe mostrargli le fauci, come ha fatto con il Ryuuzaki. E ora lo fa' - ci prova. Ma quando il labbro arrossato si alza -- le sue parole la colpiscono mortalmente. Non capisce. Ha sbagliato, lei. Ha voluto farle male. L'ha illusa. Ha usato le sue paure a suo piacimento, ma non vuole che se ne vada. La violenza inaudita con cui si colpiva il viso le ferma la mano a mezz'aria - e il suo ringhio, è solo una strana smorfia adesso. I denti serrati e pallidi, gli angoli rivolti verso l'alto. Un amabile sorriso, bonario. " Non ti toccherò più. " Ha deciso. " Ma neanche tu lo farai. " E' una promessa? Il fianco lascia spazio al decader del peso su di esso. " Scusami, Eiyuu. " Di aver sbagliato. Di averlo fatto rea, indegna, di averlo desiderato. Di far di lui la propria via lattea. Il proprio ecosistema. Il petto migio si solleva di poco - e si scusa, avrebbe dovuto farlo prima. Avrebbe dovuto recidere il gioco lì, uscendo dalla doccia. Lui, non è proprio il tipo di ragazzo che vorrebbe esser il suo eroe. E allora promette di non toccarlo mai più. E di negarsi a sua volta. Non c'è via di fuga da questo - dal rimanere il magnete opposto. L'orbita in cui gira, senza mai sfiorarla. Ma quella lacrima la vuole vedere naufraga delle sue labbra - dove la asciuga con la propria gota. Un separè di ciocche occulta tutto nel nero pesto - la luce esterna mostra l'immensità della pioggia fuori, dello scroscio -- l'umido che penetra le vetrate aperte. Il pavimento si bagna pigramente, ma l'odore è tanto piacevole da rabbonirle il nero organo. 'Mai più!' Urla al corvetto, posato sul proprio scribacchio con la mole di sventura - mai più, amico mio. Il silenzio con cui s'avvicinerebbe vestendo una lentezza ubriaca - ebbra di tutto ciò che il suo gesto potrebbe sconvolgere. Sovverte l'ordine, le parole, il tempo; gli attimi eterni, fermi e sospesi d'innanzi alla meraviglia. Due bocche, due lingue, due respiri. L'azzurro lapislazulo di quel mare antartico diviene incerto - troppo vicino e stralunato - e le ciglia tremule finiscono per nasconder la vergogna dell'impudenza. L'ultimo grande atto, prima della promessa. Se solo non scappasse ancora, se lo facesse - andrebbe comunque bene. La lingua. Arcuarsi del capo. E la mano che porterebbe il capo a nasconder quella lacrima. Ah, giuda. Mi stai pugnalando, e nemmeno lo sai. Spasmodico. Lui è il passaggio per il proprio ossigeno, e se andasse via - non saprebbe più come aprir il proprio petto. A chi far vedere i propri organi. Il decomposto quanto necessario cercarlo, giustificarlo, condannarsi. Il passaggio del pollice sulla sua gota vorrebbe nascondere ogni tradimento, ogni lagrima. Che dolore, abbandonarti, Fuji. Fallo, tu. Hai tutte le carte vincenti. Ti perdonerei lo stesso. O forse inciderei il tuo nome con la punta d'un coltello nelle mie carni, per ricordarmi quanto poco sia stata adatta. Il filino trasparente della propria saliva ricollega quel labbro gonfio e piccolo al suo - rammaricandosi dell'abbandono. Sempre ch'esso non si sia sottratto. Un respiro, un altro. Lì, a rubar il suo sapore. La prima e l'ultima volta. " Senza di me. Saresti felice. " Al termine delle sue parole sente l'eco di ciò che ha detto, ed in lui sboccia il ricordo di quell'avventura ridevole che ci sarebbe potuta essere in contrasto con la commozione oscura sorta da ben altre cause. L'ambiguità dentro di lui persiste nonostante la sollecitudine data dalla voglia di lacrimare repressa. Non lacrime in senso letterale. Ma piuttosto tutto ciò che pensa sia giusto contenere per il bene comune. Non piangerebbe mai, di sua spontanea iniziativa. Non in maniera silenziosa, non dando l'impressione di essere sinceramente ferito. Però l'ha pregata di non andarsene, cercando di raggiungere il risultato opposto. Deve esserselo meritato. Dice lei. Se dovesse dare alle sue opinioni lo stesso valore che hanno quando giudica la sua arte allora dovrebbe iniziare a cercare compulsivamente il perché di quel dire. Se ci fosse un difetto tanto fatale in quell'essere, dovrebbe poterlo vedere in qualità di creatore. Di artista. L'unica cosa che nota sono le crepe immaginarie che le rompono quel perfetto vestito da essere umano, lo sgretolano a poco a poco. Tutto converge sulla fronte livida. Sul punto dove ha urtato il tavolo. Su tutto ciò che è andato a pezzi. Ed i suoi occhi gridano nel silenzio. Le cime degli alti palazzi son per lo più spente, ma nel cielo superiore si spande un rossore simile a quello dei boschi incendiati all'orizzonte. Non è più capace di elaborare il disordine dei suoi nervi esasperati. Sente il suo Io intimo chiamare il suo nome con angoscia, ordinargli di affannarsi e sciogliere il congelamento del corpo. Tutta l'anima trema dalle radici quando giunge all'orecchio il nome di ciò che vorrebbe essere. Invisibile agonia, per lei. Ancora troppo buio perché possa vederlo. L'aumentare graduale della luce gli da l'immagine del sangue che cola, della vita che scivola via. O forse è l'opposto? Sta solo distorcendo i segnali. Invertendoli. Quello che prova gli sembra naturale, ma non normale. Nene gli ha insegnato a cercare dentro sè stesso la normalità. Non ne trova neanche un pizzico. A dire il vero non trova niente. Guarda la Doku ferirsi come creatura condannata a un supplizio vano, a un affanno inutile ma semieterno. Non vuole che sia una martire. Che lo renda umano, dandogli senso di colpa. Non è lui la creazione di lei! Ma nonostante l'agitazione fatale che normalmente avrebbe per questo ragionamento, ora non può che venir sovrastato dalla veridicità dei fatti. E' ferita, per causa sua. Il labbro muore, assieme alle palpebre. Si era chiesto al market se forse valesse la pena di imporsi. Dopo aver lanciato quel pacchetto di noodles istantanei a Saigo, anch'ella nell'atto di ferirsi, le cose erano migliorate. Adesso anche Nene si ferisce, ma lui non ha noodles per lei. La pelle livida inizia a provocargli un effetto disturbante. Un contrarsi delle membra come se lo stessero avvertendo dell'imminente nausea. Incoerente. Lui ama la pelle. Si è nutrito di Saigo in maniera disperata, nonostante avesse ancora una spalla un po' ustionata. Ricorda parte del video mandato alla Doku la notte di una tragedia. Non gli è piaciuto vederla ferita. Nene è forte, ha implicato. Ed ora? Lei ha perduto i sensi? E' caduta? L'ombra e il silenzio si fanno sinistro, lo sgomentano, mentre attende una risposta. Il luogo già notturno, impregnato dell'umidità del cielo paonazzo. Poi, una scelta. Due, anzi. Non ti toccherò più. E tu non toccherai più me. Le labbra diventano strette, rigide. Non parla, non apre mai la bocca, non risponde, come se i denti non potessero essere disserrati. Il Naraka si incarna in quella stanza: un paese di ombre, vapori e acque. Tutte le cose vaporano e diventano spiriti. La luna attira a sè la pianura e l'acqua dell'oasi, e tutti assieme bevono l'orizzonte con gola insaziabile. La terra perde la sua saldezza e si fa liquida. Ogni cosa diventa un riflesso di sè stesso. Gli chiede scusa. Deve smentirla! E con assoluta certezza apre la bocca. Ed al termine di quell'intervallo la voce si fa veramente come un vetro che s'incrina. Ogni movimento avviato si arresta, con l'atto di chi si trova di fronte a difficoltà impreviste. Il sogno ondeggiante di provare ad utilizzare la doccia si incrina. Chissà perché ha pensato proprio a quello, poi. Neanche la voleva una doccia. Il labbro inferiore si solleva, trema, torna a riabbassarsi. Prima di potersi sollevare di nuovo viene schiacciato sui denti dalla mano sinistra, con una violenza inaudita. La forza di quell'arto è straordinaria, tanto che lo strusciarsi delle carni interne del labbro all'arcata dentale gli provoca un lento sanguinamento. Visibile appena sul solco delle labbra, ma ben odorabile. Gli intestini dei morti cadono dal cielo, legati tra loro come corda, stringendogli l'organo di canto. Una sirena senza voce può anche perdere la capacità di respirare sott'acqua, e morire. Così come un'opera incompiuta può essere scartata, come ha già fatto venti o trenta volte prima d'arrestare completamente la produzione. La guarda. Non può evitarla, in quella posizione. Ah, altri due traditori. Davvero insopportabili. Eppure vestono il suo colore preferito. Il freddo lapislazzulo. Almeno c'è Nene, che elimina l'oggetto del tradimenti delle proprie pozze nere. Nene? Che ci fa lì.. " -- " Su di lui. Hai mentito? No, non lo faresti. Ultimo dono, come l'haiku che ogni monaco scrive prima di andare a morire. Il più bello. Il più sofferto. La bocca rimane molle, senza discostarsi. Già un poco aperta. Lui sa come fare. Ha imparato qualcosa. Ma sotto la lingua s'è accumulato del sangue. Non vuole farle sentire quel sapore. E allora le labbra si contraggono un poco, prendendo vita, perdendo lo status di vittima e diventando complice. La lingua si solleva solo per fendere quell'altra e tenerla lontana da dove il sapore delle sue vene è cumulato. Proteggendola, ma fallendo. Le labbra già erano a contatto tra loro. Bastavano quelle. E allora la sua volontà muore, si tira indietro, poi torna avanti, in offensiva. No. E' solo per cercare il sapore noto. Se lui è davvero un Dio creatore, allora ha trovato l'Ambrosia. Ma il termine giunge. Gli occhi non tremano neanche, alle parole successive. Il mondo creato dall'intelletto si fa inerte come il cemento delle strade del centro. La sola potenza formidabile è il veleno che corre in ogni cosa. La lotta è ineguale e atroce. Senza di lei, sarebbe felice? Ah! Quel pensiero funzionerebbe solo se davvero fosse uno specchio di lei. O lei di lui. Scacco matto. Il lampo di gioia gli illumina gli occhi, e quasi sorride. Poi, però, si spegne. Lentamente, come se stesse venendo sottoposto ad una calda realizzazione. Non è che sia tanto meglio, il fatto che lei sbagli. Perché, chiedete? La risposta la sente anche lui, sussurrata dolcemente con la voce della Madre. 'Fallimento automatico alla felicità'. Aaah. Mio caro Fuji, perduto. I tuoi genitori hanno fallito nel crescerti. Ehy. Come hai fatto a farti ingannare così facilmente nel credere di poter essere amato? Quando sei così brutto. "o..." Il diaframma ha un brivido, pianto mal trattenuto, sfuggito come soffio disperato dalla bocca. "sarò infelice comunque" Con o senza. Quella presa di coscienza che le ha già presentato per messaggio. Come uno screenshot di fronte all'occhio della mente 'Ho la sensazione che qualsiasi cosa accada alla fine non sarò felice.' E come il pianto straripa da quegli occhi già gonfi, lividi, prende coscienza delle sue parole. Subitamente inverte la posizione e la priva del contatto visivo, offrendole la schiena. E ride, un crescendo che alla fine nasconde il singhiozzo. L'orologio atomico verso l'infelicità aumenta di velocità. Forse ci metterà qualche mese in meno. Prendere coscienza non è mai un bene. L'ignoranza è benedizione. Scusa, Nene. Se non mi sono spostato. Spero che in questo momento non sembriamo troppo simili. Non voglio che tu ti accorga che ancora credo alle parole pronunciate quel giorno. Non voglio che tu sappia che sei simile a me. E che forse, allora, non sarai mai felice. [Panico] Fiele - quale essenza più dolce avrebbe potuto trovare? Ma l'amarezza dei propri pensieri la pilota verso la fine della propria corsa. La stessa corsa dove ha voluto stringergli la mano fino a fargli male. L'ha fatto, ne è certa. Così com'è certa di aver sbagliato dei passaggi, di aver tradito se stessa e tutto il resto del mondo. Se avesse contenuto solo loro due, sarebbe stato così semplice. Posso, Fuji? Posso chiudere gli occhi ed immaginare sia così? Ah, no. Le ombre del circondario sono immense e la sovrastano, la schiacciano. Rovi le adornano il capo e il proprio fegato, viene beccato ogni giorno dallo stesso rapace. Ci ho provato, a immaginarlo. Ci ho provato, a schiacciarti. A schiacciarmi. A rendere gli altri felici. A fare cosa mi chiedevi. L'ultimo dissenso goduto lo possiamo ergere come verità ultima. Non sono quello che credi, che immagini, che veneri. Così molle, così falsa, così debole. Ed egoista. Se lui era bianco neve - lei ha ridipinto le sue pareti di colori poco consoni. Di lacrime bellicose e meno risate. L'eco delle sue parole però le rende lo sguardo liquido, ha deciso di farle male - e di girare il pugnale tra le sue costole. Tre fendenti. Sei. Nove. Sedici. Quanto ancora ha intenzione di massacrarla? La mancina umida di lacrime sembra volerle reggere l'impeto di perder qualcosa dal proprio gelido nucleo. Lo sbeccarsi della preziosa ceramica con cui l'ha ricamata con tanta cura - ed ogni fruscio del vento le scansa le ciocche corvine dalla guancia - al retro della spalla. Il pallore nudo da cui si nasconde sembra fremere. Tra le insenature dei suoi raffinati meccanismi - potremmo dire con certezza che l'artista non ha ben stretto quelle viti al petto. Sta trasbordando. Sta perdendo qualcosa. E scioccamente - la cerca in terra mentre lui nasconde il proprio riso, il proprio pianto, il proprio viso. S'è persa, per sempre. L'ha calpestata. Derisa. Creata. Ed ora è accantonata nell'armadio dei suoi ricordi, con nessuna importanza; vorrebbe issarsi, se fosse vestita d'amor proprio. Iraconda. Colpirla. Come osa definirsi infelice, senza di lei? Come osa vanificare il suo dolore? Ah, dunque - non è importante. " ---- ah non " Potrebbe parire l'inizio di un discorso ma a dire il vero, è un susseguirsi di consonanti e vocali che come la fenice - nascono e muoiono in loro stessi. Ha sugellato la fine, l'inizio, la fine. Ah, quale incoerenza ! E' lui, l'unico artefice delle sue mosse - è lui, il colpevole. Forse. Ah. Ha mentito - tanto quanto lui mente a lei. E allora perchè i suoi occhi sono liquidi, se la sua intenzione era ridere? Perchè singhiozza, mentre ride in modo tanto odiosa. Amo la tua risata, e m'è odiosa. Ripete le parole da lui dette, incastrate nel suo musetto. Le ginocchia che si raccoglierebbero accanto ai suoi fianchi, le braccia sfilerebbero le fiancate del costato. Tengo tutto assieme. Posso farlo. Lo hai fatto anche tu, con me. Il gelo e l'umido della notte divengono la compagnia perfetta per stringergli il costato - per sparire nella sua schiena - arrampicando le dita della destra a coprirgli il viso. Come se fosse la sua mano, la stuola mortale. Il lenzuolo con cui dichiarare il formale decesso. Ed anche i due penny per poter traghettare oltre. " non ti nascondere " E' un bisbiglio impiastricciato contro la sua colonna vertebrale. La mancina poserebbe inerme sullo sterno - e la gemella, finirebbe per bloccar i suoi muscoli facciali. Capricciosa. Basta. Basta -- ti prego. Sentir questo riso, buffone e spavaldo, le punge un nervosismo strano. Lo ode, dal fondo dei processi funebri. Sente l'anima vacillare, farsi piccola. Ridicola. La bocca di lui, ancora sozzata del suo sapore - soffocata nel palmo della mano. E' lei a nasconderlo, ora? No, vuole solo fermarlo. Imporgli di non piangere. Ricaccia indietro le tue lacrime, i tuoi singhiozzi, i tuoi pensieri. Fallo, subito. E non girar mai il tuo viso dall'altra parte - i kami solo sanno quanto io ne possa soffrire. Le labbra schiacciate sull'epidermide si prendono un attimo. Il suo profumo. Ancora. Intravede in fondo alla via - il piccolo appezzamento soleggiato d'una radura in cui riposare. Il suo respiro diviene mansueto, all'improvviso. Per lunghi attimi l'ipotesi ch'essa si sia addormentata appoggiata alla sua schiena non è nemmeno troppo assurda. Chiude gli occhi, e le ciglia gli creano un pigro solletico. La mano sulla bocca dello stomaco rimane lì, gli tiene le budella - sicchè non possano impiccarlo. Minacciarlo. O evadere. Di riso, si muore. " con me? " Impercettibile. Forse non lo ha detto davvero. La bocca ovattata lascia andare un fiotto bollente, il respiro di chi si sta piegando - di chi sta ammettendo tutto. Lo spera, poi però ride un po'. Che stupida, no - non con lei. Scuote solo appena il capo. Va bene così, lo sa. " ti tradirò " Non vuole dirgli la bugia di soffrirlo - di crucciarsi troppo, di piangerlo. Lo ha fatto ed ha smesso l'attimo dopo. La presa diverrebbe piuma, incerta, poi una carezza. Sarà riuscita a calmarlo? Forse sì, forse no. Forse il capo di Nene poggiato sulla schiena inizia a farsi un po' più pesante, e la voce un po' più nitida. Poi meno. Poi di più. Eccoci, s'è dichiarata. " aspettandoti " E si soffoca di nuovo. Il punger del nasino sulle vertebre - le ciocche lo solleticano appena. Le braccia lo tengono al caldo - così la parte interna delle cosce che gli sfiorerebbero i fianchi. Si serra, ma non in un blocco - solo in un abbraccio. Aspetterò che tu non voglia più fuggire. Aspetterò, mi piace farlo. Mi piace, che tu non voglia subito. Non sono pronta. Non lo è nemmeno lui. Non lo è nessuno, per noi. "Non è troppo differente da te che aspetti che il carro compaia, alla fine." Inspira - fragile. E lascia andare il suo viso, il suo riso, il suo fiato. E quell'abbraccio, sembra farsi piccolo cosmo in cui rinchiuderlo. In cui dargli la speranza, la sicurezza - o la disillusione a cui ambisce tanto. " Se ci pensi, tutte le cose belle si fanno aspettare. E se tu non arrivassi mai, Eiyuu, sarebbe okay. Ti penserei felice. E sarei felice con te. " Non è un utopica visione dei fatti? Le spalle si chiudono, lo chiudono nel proprio petto. Lo serrano in se - nella sua gabbia - nel suo cosmo. Meraviglioso e solitario. Il naso tra i capelli neri. Inspira. Espira. Inspira. Si mostra tranquilla, triste, ma in rassegnazione. Il perfetto amante. Accetto. Rispetto. Aspetto. E andrà bene, qualsiasi cosa tu faccia. Chissà da chi ha ricevuto il comando di non imporsi. Da qualcuno che è in lui, in fondo in fondo allo spirito, qualcuno capace di vedere quello che egli non riesce a vedere, come la cieca della tragedia. Chi sa che decidendo di ferire tutti indiscriminatamente la sua anima non trovi armonia e le labbra non imparino quel sorride che tante volte hanno tentato inutilmente. Il soffio della stagione fende il cielo, batte sui vetri vicini e subentra in quell'appartamento. Non gli importa. Ha deciso di voltarsi. Abbandonarsi indietro, sentendo il cuore struggersi. I suoi occhi ancora aperti offrono i loro sentimenti ad una parete, ma non la vede tanto bene. Tutto è sparso di vapori a quella vista e le volubili piuma che son le ciglia trattengono malamente quei chicchi di riso. Si raccoglie un poco a sé, coronato di pazienza, sul pavimento nudo e con il cubito meccanico allineato allo stomaco. Fanciullo triste, circondato dagli strumenti attraverso cui le sue opere cercano invano l'umanità. Da tutte le forme di lui sale il silenzio, diventa un cadavere. Non vuole fare troppo rumore, quando la risata scema. Che odio, la realizzazione. La duplice natura delle cose. Hey, Nene, se dovessimo essere infelici per essere felici, allora sarei davvero triste. Spero davvero di sbagliarmi. La distorsione di un messaggio mandato via chat lo attacca al petto come una scarpa farebbe calpestando un morto. Il corpo si agita un poco, spasmodico, ma tutto finisce lì. Avrebbe davvero voluto che l'armonia dell'universo non fosse fatta di discordie. Ed invece sembra che quella verità gli si presenti costantemente alla porta di casa. Può far finta di essere morto, come un cadavere chiuso nella cassa di cristallo. Eletto della Vita e della Morte. Non nasconderti. Un infinito sorriso illumina la faccia dell'eroe; infinito e distante come l'iride dei ghiacciai di lapislazzulo, come il bagliore dei mari. Se solo fosse teatro, è ora che il pubblico percepirebbe una meraviglia e uno spavento tale da farli religiosi, beati e dannati dalla rivelazione di un segreto divino. E' in quel momento che i veri apprezzatori dell'arte comprenderebbero la potenza dell'unico desiderio che avrebbe Fuji se spogliato del suo essere marionettista: Essere visto. Tra le cuciture. No. Non basta essere visto. Vuole essere compreso. Amato. Ma questo solo i Massimi apprezzatori lo sapranno. E sapranno che allora essere soffocato non è poi così male. Il viso spinge sulla mano e s'assicura che non ci sia spazio perché l'aria fugga o lo raggiunga. E' così calmo, adesso. Rapito da un'angoscia sublime: non è solo nella bara di cristallo. Adesso dovrà spiegare a Nene perché al suo funerale non c'è alcun corteo. Con lei? Voltato, catturato da quella morsa, tende il collo quanto possibile, per vederla. Creare un contatto minuscolo. Mostrarle le palpebre arrossite dai riflessi violenti che battono sullo sguardo. Così strano, miracoloso, come uno di quei fiori che spuntano dagli arbusti magri e torti. Bellissimo, veramente, come le cose naturali e misteriose, recante nella concavità degli occhi il soffio della vita. Trasparente come le meduse che vagano su i mari, semplice, senza ornamento alcuno se non il labbro diventato freddo, esangue. Perché sia bello, nessuno potrà mai saperlo, tranne lui. E nessuno potrebbe comunque esprimerlo, né con una parola né con mille. Il suo pregio è nullo o incalcolabile, a seconda della qualità dell'occhio che lo vede. I soggetti dell'analisi precedente son lui e il riflesso degli occhi: lei. E con lei? Ancora non ha risposto. Il suo occhio nascosto tra le dita di lei è come l'iride animale dove si specchia l'Universo. Si romperà sicuramente, un giorno. Possono piacergli i fiori in plastica ma lui, ora, sta appassendo. Non ha nessuna intenzione di rifiorire. Che odio, la morte. Almeno le budella non possono più strozzarlo, almeno il nodo alla gola è venuto meno. La sente ridere, nervosa, falsa, triste. E' un gioco a somma zero, senza vinti o vincitori. Ma io ti ho mostrato gli occhi. E ti ho rivelato ogni cosa, senza riaprire le labbra. Gli spettatori del teatro hanno già capito la risposta. E' straripata come ogni altra cosa. Il collo torna alla sua posizione originale, di nuovo voltato, invisibile. Ed il corpo sente ogni vano contatto. Non cambierà nulla, Nene. E' inutile parlare, tutto ci è chiaro. Poco dopo, le mani vengono meno. Il suo viso è libero. Il miracolo avviene. L'aria par quasi brillare di un folto pulviscolo d'oro. Ed ogni cosa ha le cime rese argentate dalla luce lunare. Il suo corpo nudo a poco a poco si raffredda e le vene visibili prendono il colore del gelato orlo marino. Raccoglie le sue energie per staccarla, issando il busto. E' un istante lungo, in cui sembra esser pronto a distanziarsi per sempre. Chiederà perdono un altro giorno, a tutti coloro che lo vorranno. Se può incarnare il ruolo del martire per Kazuma può farlo anche per il mondo intero. Per un momento la morte diventa oggetto di desiderio. Breve lampo. Realizzazione. Sgomento. Il corpo ricade, come fosse stato sparato in testa. Ma è di nuovo rivolto a lei. Forse, per sbaglio, potrebbe averle schiacciato un poco le carni con le proprie. Non è il momento di risistemarsi. I suoi occhi si riaprono, clementi e fermi, infiniti come un orizzonte di pace. "Ho capito" Tutta la sua anima risente di quella realizzazione. I ricordi di lotta e patimento sembrano irrigarlo di un caldo flutto, risollevarlo. La sua volontà dev'essere davvero stata battuta su un'incudine simile a quella di Efesto! E' incerto l'approssimarsi dell'alba quando la notte splende come il giorno. Lucido come nell'incoerenza di un sogno dove si realizza l'inganno. Prova un insolito bene, ad aver capito. Cosa? "Non so se posso essere felice" Non pensa. Non ci crede. Non crede a un sacco di cose. Il diaframma si gonfia un poco. E' sereno, serenissimo. "però" ... "so" Sa? Il silenzio che segue è lungo. Come a darle un'ultima opportunità di silenziarlo. O diventare sorda. Scegli tu. Va bene uguale. Lui ha capito comunque. Gli atti estremi di crudeltà richiedono un elevato grado di empatia. "..che non vorrei essere felice." Non sei d'accordo, lettore, che questo è peggio che spegnere la luce coscienziosamente? Povera, inghiottita intera. Ha sofferto nei suoi intestini per un tempo che deve esserle sembrato eterno. Non è che non è mai arrivato. E' che è sempre stato lì. Lui, con le sue allusioni ricercate, con la sua estetica sofisticata, avrà sempre un seguito ristretto, eppure, c'è qualcosa di universale in quello che fa. Guardandola scorge un bagliore della loro fine. E prova ad allungare entrambe le mani, per aderirle gentilmente al lato del suo viso. Issarlo un poco, e fermarlo. "..senza te." Si avvicina. Ma non poggia le labbra. Non ti toccherò a lungo. La mia imposizione è martirio e condanna. Il super-io viene brutalmente soffocato. Al diavolo il censore, ed i suoi giudizi. L'Es e l'Io si fondono. Ora Fuji serve un solo padrone, non più tre. Possiamo essere infelici assieme. Non lo dice. Sarebbe solo un mucchio di parole. Lo dimostra, tentando di far scivolare il labbro inferiore sulla pelle del viso, aprendolo per rubarle tutte le lacrime raffreddate sulle gote. Soffermandosi appena sotto la palpebra destra. Gli occhi rimangono aperti, anche loro hanno trovato la risposta: l'oggetto del tradimento non meritava di essere protetto. [Panico] Un pianto soffocato nei palmi non sarebbe abbastanza; l'urlo delle sue lacrime è il nuovo canto di tormenta, le trapana le orecchie e la trascina alla deriva. Se boccheggiasse, riuscirebbe ad ottenere più ossigeno? Tra le ciglia d'esso deve essersi incastrato qualcosa di proprio - deve essere così da come si ritrova ad osservarlo. Ammutolita. Gelida, o in preda a lingue che le lambiscono viso e labbra. Le stesse che aveva nascosto nella sua schiena. La mancanza impercepibile è un solco nel petto - e s'è sentita come se lasciarlo andare in avanti avesse significato lasciarlo andare dalla propria vita. Ah, assolutista. Smettila di asfissiarlo, di tappar le sue ali nell'ossessivo terrore di vederlo volare lontano. Le falangi nude tremano, lo richiamano. Non mi lasciare. Non lo fare. Non ti disgustare. Non essere triste! Esausto il pensiero che le raschia la gola, mentre il preludio del finale le pizzica ancora lo sguardo. Capillari arrossati nascondono la punta inferiore dell'iceberg. Lui riesce a toccarla, ad evadere ogni promessa e spergiuro fatta fino ad ora. A distruggere l'impeto d'ira che l'aveva spinto via, avvicinato, spinto di nuovo. Indovina, Fuji, a cosa sto pensando ora? Sei bravo a questo gioco, il migliore che io abbia mai visto. Forse nascondendosi il viso, come farebbe adesso - non riuscirà a sentir il flusso stanco dei propri pensieri. I muscoli rattrappiti, flaccidi. Le spalle fanno di lei un piangente minuto e ripiegato pigramente in avanti. Risollevato quel che basta a chiudersi; l'amabile oggetto della propria infausta collera - lesionato e stanco, si ritrova protetto contro le ginocchia che fino a prima si erano curate di lui. Come puoi osservarmi così? Come puoi esser frugale quando vedo i tuoi occhi bagnarsi, riflettendo il mio scranno al suolo? E' rimasta senz'aria - nascosta - silenziosa. Solo la schiena di tanto in tanto osa, Caino, muoversi in un violento spasmo. Ah, lo sai? Cosa? Il mistero e la rivelazione si fanno oggetto d'acufene. I propri aculei da porcospino divengono di leghe impenetrabili - nell'avambraccio e nelle mani che forse - optano per coprir nel proprio palmo i padiglioni auricolari. Zitto! Ah, la tua lingua - molle e calda - si muove solo per sibilare. E per chiedere scusa ? L'intolleranza, la sua insolenza ad inferire. La convinzione di star per udire che non sarà mai lei, l'oggetto delle sue felicità. Versati litri di lacrime. Il singhiozzo soffocato nel proprio simulacro - strozzato buffamente dal fremito che le smuove le spalle e la carne quando è lui ad approssimarsi a bere da lei. Rivoli umettano le labbra, il dolciastro specchio della propria anima. Quando è finita nei suoi occhi, in questo modo? Quando la pressione del suo corpo s'è fatta così forte? Febbricitante delirio. E il petto trema. Le mani lasciano andare le ultime note di quelle parole - sporcandosi della voce ovattata dell'ectoplasma che le si annida nell'amigdala; il mento levato, il silenzio, l'urlo della pioggia. Come può vivere? Amaramente fronteggia l'ipotesi di morire con un tempo così pessimo. Deja-vu. Banale. Sei un piantagrane. Lascia che sia io a decidere? L'aguzzino però, profuma di legno e vaniglia. Ha labbra di pasta di zucchero, frutta. Ed il proprio viso si prostra allo stesso modo, con labbra schiuse. Cedevole la carne su cui poggia, o sovrasta. Non è fuggita, l'ha solo incontrato - e mentre i suoi palmi tengono il viso - lei rimane inerme. Con gli occhi nei suoi. Immensi. Si lava viso ed anima del suo essere, del suo mostrarsi, non lasciandosi sfuggire nulla. L'iride cupa, la sua stanchezza. La sua forza. Il suo errore. Cosa avrebbe voluto fare, ingannandola, vedendola cedere come terra umida ? "..." Sei. Felice? Con me? Ah, non riesce a parlargli. Non riesce a superare la linea da lui posta - rimane bloccata. Ma fa freddo da questo lato ed attendendoti, potrei peccare di poca pazienza. Il visetto si consola di lui - sfamandone il bisogno con rivoli nuovi. Incessanti. Pigri. Le labbra rifuggono le sue - impegnandosi ad amare di lui, una parte alla volta. Un frammento di tutto si dipinge di rosso acceso, nell'immenso cortometraggio in bianco e nero. Dal polpastrello ultimo del medio di carne - risalirebbe con le labbra a riprendersi semplicemente ciò che è stato suo. A rubar l'arte, la propria, certamente. Solo la punta della lingua risalirebbe il loco, la falange mezzina, il polpastrello. Cancella il passaggio nelle carni, le sue prese in giro, l'amarezza dell'infelicità -- untuosa macchia che la vede gettare lacrime. Anche adesso. E' un meccanismo di difesa? O voleva solo fargli dispetto? La vetta del dito le sparirebbe tra le labbra, insolente - rialzando gli occhi. Fatti vedere anche ora. Spogliati, scuciti, lasciami guardare. Il gioco della lingua non lascerebbe più nulla - la renderebbe esausta. Lo è già a dire il vero. Ma perchè non può fermarsi? Perchè non può mantenere fede alle proprie promesse? Non ti lascerò anche questo. Ti ho già lasciato troppo. Il proprio bocciolo lucido, vermiglio - lo schiocco con cui lo abbandona. Con cui si lascerebbe cadere - vestita di un amabile sorriso. Capriccioso. Dispettoso. A tratti egoista - ah no, non a tratti. " Di più. " E di cosa parla? Di lui, di quegli occhi, di quello che le lascia vedere. A tempo debito, capirai. A tempo debito saprai che intendeva, guardandoti, chiedendoti. Di più. Più bello, più felice, più insieme. Il morente respiro sul suo polpastrello viene meno quando si leva - lasciandogli il proprio sbiadito riflesso da amare. Come pollicino, levando la schiena - lascerebbe le briciole di ciò che le rimane. Macchie di stoffa a terra - poche, povere. Ha invaso i suoi spazi e se ora si voltasse, Nene, sarebbe ovunque. E' stato uno sfortunato caso, credetemi. Le fossette di venere si fanno ombre - le antiche si mostrano nel baluginio tra pioggia, buio - e lo strascico della sposa che si celebra solitaria nella volta notturna. La propria ombra sembrerebbe con certezza, asciugarsi le lacrime con il dorso - e poi piegar nel frigno il letto di Fuji. " A cosa pensi? " ... " Non vorrai nasconderti ancora..." Indagatoria. Tutte le porte si fanno più piccole. L'androne è umido e silente come una cripta privata delle sue reliquie. Solo un buco di mattoni. Vacilla ad ogni movimento. Il silenzio si fa un po' più spaventoso, quando è anche interno. Ed avendo esternato ogni cosa ed avendo fuso le tre teste dell'Ego ora non ha più di che pensare. Può solo preoccuparsi di quella minuscola creatura. Di quel sapore dolce e amaro. Lo sapeva, che si trattava del nettare ambito. Perché gli fa male, non perché gli piaccia. E allora è certo che sta bevendone i dolori, rubandoli come lei tenterà vanamente di rubargli l'arte. Ora puoi averne quanta ne vuoi. Il mio spirito è luce inesauribile e tu non sei che un essere del sottosuolo, proveniente dalla caverna di cui scrive Platone. E' troppa, per te, la luce. Non riuscirai a prendergliela tutta di getto. Ci metterai del tempo. Gli occhi riescono a mettere a fuoco solo quello che la circonda, rendendo efficace solo la vista periferica. In un angolo del luogo, verso la zona dedicata alla fucina, vede una ragnatela tremare nell'inferriata che dà sul luogo dove il fuoco è solito essere. Ed un ragnetto sembra accorgersi del suo sguardo, correndo da un angolo all'altro di quel costrutto, alla ricerca di un luogo più sicuro. Quegli occhi aperti sembrano pronti a divorare tutto ciò che non merita di stare nel Grande Affresco. Del ragno, sente i movimenti come se fossero sulle sue mani. Sul gomito, poi sul polso, poi il dorso... Soffre i dettagli della casa come se ne avesse costruite le travature con le ossa, come se l'avesse colorata col suo pallore. Non c'è nessuno. Solo lui ed uno specchio. Comprende. Il silenzio è naturale. E' pieta- pudore. La sventura lo prende per mano e decide di bullizarne il medio. Un gemito rompe il silenzio, come rischierebbero di rompersi le ginocchia se già fosse in piedi. E' pieno d'ombra, dentro quella bocca. Il suono sporco della lingua rimbomba ciecamente all'interno dello spazio dove è stato concepito. L'odore indefinibile lo prende, lo soffoca, come una malattia. Il collo trasale, come preso da una mano fredda. Agghiacciato, ma solo col corpo. I piedi scalzi si trascinano un poco sul pavimento, stringendosi a sè. La testa sollevata ha uno spasmo come se una vertebra del collo si fosse appena spezzata. Guarda quel viso. Sarebbe stato meglio essere stato accecato dalla sorte, perché ora non è in grado di far altro che ammirare. Ed il viso del marionettista si fa unico, per questo mondo. Non è quello lo sguardo che il Salvatore ha avuto quando ha preso su di sè tutti i peccati del mondo? Orribile, sublime - per davvero! - con uno sguardo che non vede e riconosce se non ciò che è rimasto nel dito. Vuoto di ogni terrore, perde senso. Ed incontra e conosce una morte che forse nessun altro figlio di donna potrà mai conoscere. Il finale si abbatte sul suo capo. La bocca si apre, ma non produce che un mugolìo fioco. Ha nel suo occhio qualcosa come una cristallizzazione di ametista, un lampo che ha come aspetto la risultante tra i loro colori. Il polso rallenta, alle parole pronunciate. Di più. Un'ape deve averle lasciato in bocca del miele. Riceve il chiarore e la rivelazione delle forme sulla palpebra nuda, insieme ad un torpore che s'addensa sul basso ventre, dove qualcosa è cambiato. Le mani pietose cadono e lo coprono in un primo momento come lenzuolo fresco. Poi, però, si issano. E' già sfuggito, alla notte. E alla morte. E al sonno. Esausto. Ma sente di aver appena dormito. Ogni nota e colore sospinge di vena in vena sino al cuore il calice della vita, quello che non ha assaporato e che a lungo ha tenuto lontano dalle sue labbra. Ecco, è all'orlo, è prossimo. Il cuore si arresta, poi è subitamente posseduto e riempito. E' già coricato, con parte del bianco velo che copre a metà il petto, in orizzontale, ed in verticale la coscia sinistra, salendo all'addominale. La destra, lieve, col dorso, prova a toccare la sua gota. Gli occhi si spostano pigri, ma il viso rimane orientato al soffitto. Non sa più dove sia il suo male. A cosa pensi, Fuji? Sempre alle stesse cose. Ma un po' diverse. La schiena strofina sul materasso. Eccolo, all'inizio del suo dissolvimento. La pelle si disgrega e diventa colla. Non può più scappare. Non l'avrebbe fatto comunque. I giorni passano, le ore precipitano. Nulla ha misura, non il tempo, nè il coraggio dell'uomo. L'eroismo è senza limiti. Ed al vertice sta il poeta eroe. La sua arte è sostenuta dal coraggio, il coraggio è riversato in lei. Allora decide di smettere di offrire la linea degli occhi al soffitto. Si risistema di poco, perché sia lei il punto dove gli occhi ricadono quando a riposo, quando accigliati. Non è un'esagerazione dire che già appare come dopo a un orgasmo. Provato e pensante, nascondendo un po' le sue forme. Ha sete. Non sa se di acqua, arte o libertà. Sente che c'è bassa marea, a nord di Keimusho. Si vedrebbe ogni cadavere. Ascolta. Ed il suo respiro si fa pian piano come lo sciacquarsi alla riva delle onde più leggere. Il ticchettio di un pendolo è ben udibile. Ed anche quello di una goccia che cade sul pavimento della sala principale. Lei è vicina. Le narici s'allargano. "Pensavo che odori di giardino grondante." Come subito dopo una pioggia, quando ogni odore del terreno viene portato a salire. Per un attimo fissa il medio di carne. Sente di nuovo il succhio della sua arsura. D'un tratto gli viene in mente che ci sono certamente innumerevoli costellazioni senza nome. Che nomi gli darebbe? Perché proprio il suo? La bocca di Fuji, pronunciatosi, fa tacere ogni altra cosa. "Voglio tutte le porte scorrevoli" Dice davvero ciò che pensa. Ma lo fa anche. Il polso della destra si solleva un poco, le dita diventano una gabbia e la mano si sposta, alla ricerca di un colle. Non cerca il cuore, questa volta. Va bene anche il destro, il più ignorato fino ad ora. Osa volgere un poco la sua gota a lei. Coatto si avvicina, indifferente a tutto. Ora è diventato il ladro più temuto: quello che agisce su un palco, circondato da luci. Ed il suo obiettivo è che il viso si strusci un poco sul lato della gabbia toracica. I capelli potrebbero torturarle la valle. Eppure il mar nero s'alza, raddensato di buio, con il cratere dell'occhio che si dilata e si premura di cercarle lo sguardo. La mano di carne stringe un po' la materia solida e ricca, danza con furore sulle rupi in metamorfosi. "Ho sete. Fame. Voglio il Soju." Ha sempre sete, ma i suoi tre torturatori a lungo gli hanno vietato di bere. "Tu che pensi" Ecco a te, l'incoerente lista dei suoi pensieri. [Panico] Deve aver chiuso gli occhi; il vento contro le finestre si chiede l'audacia di superar le vetrate e sfiorar l'addensarsi di un coraggio che non ha portato a nulla, se non a mostrar il proprio fragile spettro. Arrancante, agitato, spaventato. Deve averlo abbracciato, lo spettro intendo, fino a farlo morir nel proprio petto. Un rassicurante solletico ha osato ripiegarle gli angoli della bocca verso il cielo. Ti rendi conto? Alla passione s'accosta lo sciocco ridere di quella che è solo una ragazzina. Non c'è niente di divino. Le costellazioni che lui cerca ora sembrano smuovere il frammento del rifiato dopo aver combattuto troppo a lungo. Le labbra si schiudono - cercano le sue falangi. Il velo pallido le risale la gamba destra, tanto tiepido da giocar con l'immaginazione di chi ridendo - potrebbe immaginarli chiusi qui per tempo immemore. Sono appena arrivati, e la loro stanchezza ne è la riprova; il fianco nudo - il ventre coperto. S'è presa cura dei propri punti vitali come se la propria amica paranoia l'avesse abbracciata, stupido parassita, facendola agire sconsideratamente. Abbiamo in noi automatismi che non capiamo, che non comprendiamo mai. Almeno finchè non ce li fanno notare. Il marmo levigato è meraviglioso, non trovi? Mani maniacali potrebbero rendere veritiero il posarsi d'un lenzuolo sulla pelle - e giocare con il vile sguardo di chi ha smania di bere - ma ama anche aver la bocca asciutta. Si vede, è certo, è lì. E il fatto che sia lì, il fatto di saperlo, diviene un tarlo. Il proprio grillo. In parte incastrato fra le cosce il velo risale - si tira quando è lui a smuover il letto. Il capriccio dell'artista smuove anche lei, in misera parte. Il petto spoglio si leva, si abbassa, lo accoglie. Come se fosse stato tutto suo, da sempre. Come se potesse chiuderlo, ancora, e tener ogni tassello al suo posto. Non c'è futuro di cui abbiamo paura. Non c'è finale temuto, perchè siam consapevoli di tutto. " E' una bella idea... " Un mugolio s'impone sull'irruenza del vento, e dopo aver di poco curvato il viso alla ricerca delle sue falangi - sfiorandole con il musetto innocente - si lascia solleticare dall'irrilevanza dei pensieri. Parlare fa' bene. Riempie la bocca. E alleggerisce la mente. Tentacoli come notte serpeggiano nel suo cuscino, ungono il suo nido d'immagini che per sempre storceranno questo luogo. Rimarrà impuro. Ti va' bene? Ti va' bene ricordarla ovunque? Il riflesso d'issar il petto per riempirne il palmo crea arte densa. Fossette disegnate dai polpastrelli, ombre, luci. Bianco latte si confonde con il lenzuolo e il pigro pigmento rosato è solo un tiro mancino all'anima. Il costato fragile trema, ride - ma dalle labbra di Nene non esce niente se non un mansueto e timido mugolio. Insegue il discorso, ne fa' parte. "Ah..." Capisce, ne è certa. Deve avere sete. Anche le sue labbra sono più secche quando non lo toccano. La raucedine nel tono. Il bagliore delle tapparelle aperte riflette l'intera oasi nella stanza. Non si fida di questo buio. Non si fida nemmeno della luna e dell'orsa, che dalle finestre - s'allungano a toccar la pelle del proprio fiore prezioso. Le ciglia ricurve si levano, nere e definite, riemergendo quei diamantini azzurri per carezzar il capo ripiegato sul proprio costato. Cosa cerchi lì in mezzo? Il profumo della pelle è dolce, paradossalmente per Nene. Vaniglia, argan, tabacco. Decisivo, arrogante, dolce. Un quesito. I fianchi lo sfiorano in modo distratto quando si lascia cadere. Il materasso sembra amarla tanto, più di chiunque altro, da non volerla lasciare andare. Disordine. Anche il capo di Fuji è così ricercatamente caotico. La lentezza dei movimenti, di come cambia di poco la posizione delle gambe, denota una pigrizia peculiare. Il petto che ora - con il primo insidioso tocco di vento - gli solletica il palmo pungendone il centro perfetto. Delineando il punto focale. "Dovremmo ordinare una pizza?" A questo pensa. Vuoto. Una conca in raccoglimento, senza niente nei propri occhi - se non un riflesso già visto prima. Ah, ora ti riconosco. Ora, ti conosco. Vorrebbe presentarsi, ma sarebbe da sciocche. Fuji già conosce il suo nome, e paradossalmente, è tutto quello che avrebbe da dirgli. Deve alzarsi? Guarda la porta, distante. Il tavolo al di fuori. E poi in sala fa' freddo, ha dimenticato le finestre aperte. Da essa viene una bava di vento pigra, però. Incredibile. Le porte scorrevoli sarebbero meglio? Il fruscio del collo mostra un delinearsi del nervo che collega l'orecchio, alla base del collo. Il pallido rigonfiarsi, ammansirsi, come una belva sonnolenta. " Anche io. " Ammette le sue colpe, ammette di avere anche lei un po' fame - e un po' sete. Ma non si sente sicura ad abbandonare il letto ora che è appena arrivata. Fuji, la farebbe entrare di nuovo. L'ultima volta che è scoppiato qualcosa, l'ha chiusa fuori. Blindata. Lo guarda. E' ancora lì? Le ciglia si fanno un poco innamorate - e le labbra sembrano ricettacolo di sangue, arrossate. La mancina gioca con le dita tra le increspature del lenzuolo, immergendosi nei frangenti in cui esso si bagna d'ella - le dita tra le ciocche nere si perdono, si trovano, trovano la cute da coccolare. Le unghie gli sfiorano con immane delicatezza la nuca, e risalgono sicure. Lo pettinano, si prendono cura di lui. Così come lui si trova ad aver a che fare con quel lembo di velluto. Il tendersi mette in mostra una lira di tre corde. Le costole paiono un mostro che deforma la carne, che corona un marmo disegnato con perverso candore. Lo accarezza. Rende se stessa, il miglior luogo dove riposare. E' la schiena a romper il sogno, o forse a traslarlo altrove. I fianchi si muovono, si spogliano - villani. La curvatura del buio fa' della carne un pensiero bellico. Di come il suo viso si trovi d'innanzi lo sterno - e le sue leve- si trovino a combatter l'invasione di una di quelle di Nene. Il ventre cercherebbe il proprio pari, il ginocchio come promessa e minaccia. Lo carezza, risale, s'arresta. E' una sensazione celeste, questa? Sentirsi bene? Un brivido le risale la schiena e la porta a tremare contro il suo palmo. A reagire. A chiamarlo. Lo stesso petto che trema ora - sembra volersi nascondere a lui. " Chiama tu, però, io sono stanca. Mi hai fatta piangere. " Scrive sopra una stretta superficie di cartacea contenente non più dello spazio per un singolo kanji. Una sola riga. Le dita che sfiorano le gote diventano come un lapis scorrevole. Il pollice ed il medio della mano, poggiati sugli orli di quel viso, scorrono via via che la parola è scritta. L'ultima falange del dito mignolo s'allunga verso l'orecchio, creando una linea che gli serve come guida per conservare la drittura. Cerca di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il gioco in corso non diventi troppo poco misterioso. Dopo averla guardata, chiude gli occhi. La stanza è muta di luce e scrive nell'oscurità. Traccia segni nella notte che è solida contro una e l'altra coscia, attaccate come un'asse inchiodata. Senso di improvvisa illuminazione, nell'eternare gli attimi con l'arte. Le dita perdono d'etereità e violano quella pelle per sporcarla eternamente d'inchiostro. Le sue labbra sussurrano ciò che incide sotto forma di Haiku incompleto: tradito dall'arte! Come può tenere segreti, così?! 'Dal ventre della morte- Noi, vagabondiamo' I kanji son ben meno delle lettere scritte in caratteri romani. Poi, un breve distacco. Sta voltando pagina. Anche lui vorrebbe presentarsi, ne sente il bisogno. Incide un po' più in basso, al fianco del labbro. Da qualche parte, esiste un monte che prende il suo nome. Fra le terre nascoste ad ovest, sta la vetta del Fuji. Gli alti cirri osano appena avvicinarsi, e mai volano fin lassù gli uccelli. Lì, il ghiaccio raggela ogni incendio e il fuoco distrugge la caduta della neve. Perfetta natura duplice. Chi scrive d'egli, dice che è vano cercare le parole, perché non esiste nome degno di lui. Il dito scorre, indeciso. Si susseguono spietati i kanji, tra le dita e tra le labbra. 'Ricco' 'Abbondante' 'Immortale' 'Soldato' 'Samurai' 'Incomparabile' 'Senza fine' 'Cima del loto'. Sono tutti modi di scrivere lo stesso nome. La difficoltà non è nella prima riga, ma nelle successive. Allora torna a guardare il mondo. L'occhio trema un poco, spalancato. Lo trova ironico, che tutti questi significati gli appartengono, e che tutto assieme non ha alcun senso. Sorride all'ombra di lei, al lume di una lampada bassa. Alla fine abbandona la carne, insicuro. Per ingannarla dal suo fallimento ha già preso posizione dove gli occhi, tra ciocche e carne, non sono più in grado di rivelare un granché. Ma tra quelle minuscole faglie vede lei. E' una bella idea. "Sì." Il dito fa un fruscio inudibile se non ai ninja, passando per la cima della duna di sabbia, corrugata dal vento della novità. Ed allora diventa un po' spietato, decidendo di contare i granelli, affondarvi la mano, riempirne le dita e poi abbandonarli gradualmente facendo scorrere tutto su le dita. Poi, come mano creatrice - la sua, dopotutto - mira alla creta cedevole, accompagnando un soffio misterioso. L'occhio aperto troppo a lungo, soffre; l'orlo della retina brucia accartocciandosi come un papiro antico. Del sudore cola alla bocca misto ancora al sapore delle ciglia compresse. Eppure, giurerebbe che il sapore sia più fresco. Ha sete. Ma non vuole alzarsi. Nessuno dei due sembra esserne intenzionato. Dovrebbe dissertarsi di pianto e sudore. Buona idea. Reso agiato nelle carni apre un poco la bocca, baciandole in apparenza ma saggiandole in verità. E' un gesto breve. V'è un che di religioso nei punti dove le carni si toccano. E per non commettere peccato decide di allargare un poco lo spazio che intercorre tra le proprie cosce, dando spazio a lei. Il suo respiro si fa vampa soffiante dal tizzo ardente. Ed il corpo diventa una cassa, disteso e costretto. Raccolto, attento, sagace. Il cuore batte senza misura. Il ginocchio altrui trasale e nei suoi occhi può esser visto formarsi un campo ardente: sgomento. Stringe la carta. La mano che teneva il colle di sabbia è convulsa, quasi dolorosa. Le falangi s'issano e non sanno dove riattaccarsi, finendo per impanicare un po'. La mano meccanica cerca il palmo tremante, dopo un solo attimo di esitazione. Ora il suo capo scompare, si nasconde cercando come una ferita aperta in cui entrarle. L'unico coraggio residuo è la mano di carne, naufraga di un incendio. Destituito dalla potenza creatrice, conserva ora se non quell'atto istintivo da fonditore di cera persa. Le parole finali lo destano da ogni fatica. Eccolo, che par voler scarnire il frammento di cera rossa tra pollice e indice. Cerca solo un punto di sfogo. La visione assume una intensità tanto cruda che prima o poi si renderà conto dei folgori di follia che gli traversano il cervello. Eppure è ancora lì, torturando il grumo sanguigno. Facendo finta che sia solo uno spasmo del suo corpo sorpreso. Il contatto del ginocchio è trasalito alle spalle e gliele ha fatte completamente irrigidire, sono ancora lì: sollevate. Sul ventre, prima che questi possano schiacciarsi, si gettano tre ombre. Una più sofferente delle altre, schiacciata da loro. Lungo dolore convertito in giubilo. L'anima guarda il viso che è veramente il suo viso. La carne che lo schiaccia è solo un peso per lei, ed un rapimento, per lui. Eccolo, issare e allungare il busto, rimanendo schiacciato a lei. Facendo strisciare con lui ogni velo e cambiandone posizione, vanificandone gli sforzi. Si allunga con intenzioni maliziose, verso il comodino: eppure, è arte. Sta sotto il cippo di pietra: lei. E allungandosi lui, il cippo diventa come un quadrante solare, un orologio cui lancette son create dall'ombra del braccio teso d'Icaro, come stilo di ombre argentee che segna sopra l'unica ora leggibile: quella dell'estremo coraggio. Respira, sentendo gli odori di lei salirne. Non sono più allineati, i corpi. Le starà certamente invadendo il viso con il proprio petto. Dischiude la bocca, divenuta quasi insensibile, indurita da troppi sapori. Così, con fatica immensa e un po' simulata, tenterebbe di afferrare l'oggetto ricercato: il suo telefono poggiato al comò. Dal basso, tra le ciocche, potrebbe esser visto l'accenno ad un sorriso beffardo. Conosco questi giochi. In verità no. Ma è pur sempre un genio-- o no? Il sangue aggrumato sotto le gote mostra qualcosa che il tono nasconde perfettamente. "Non mi fa pena il tuo pianto " La mano di carne tiene il dispositivo, il medio preme sul lato per sbloccarlo. Vede lo schermo, un annuncio straordinario della Shinsengumi appare lì davanti. Lo fissa, ma non lo apre. Sembra importante "è anche mio. Comunque.. " Poi, la data. Batte le ciglia. Il suo corpo teso si rilassa un poco, morbido, non più strofinandosi sulla carne ma adagiandocisi sopra per prenderne forma complementare. Strabuzza gli occhietti. Lungo silenzio. La coda dell'occhio scivola su Nene. Lei lo sa? La bocca aperta viene invasa da una nebbia d'odori, che gli occupa i polmoni. Ed il respiro lento diventa caldo, fluttuante, accumulato. Il suo corpo diventa più lieve, alla fuga del respiro. La memoria si concentra per rivivere tutto, attimo per attimo. Con la fronte che gli duole, cercando di comprendere. Quanto accaduto sembra iniquo, falso. Ha perso il controllo? L'entità? Rinato nella creazione di sé stesso, alto, celeste, maneggiato e forgiato da due volontà fuse in una. Cerca l'altra responsabile. Non c'è colpa, negli occhi. E' lo stesso sguardo che ogni essere vivo aveva nell'Età Aurea. L'ultima cosa vista, pigramente, è il titolo di una delle tante testate giornalistiche che han scritto dell'annuncio della Shinsengumi. Un nuovo nemico pubblico? Ah. Che gliene frega. "La sorte del fuoco è la nostra vera sorte" Parla da solo. E' solo una constatazione. Non può esserci niente che cambi nulla, loro son destinati all'olocausto, in senso arcaico. Sacrificio supremo, come le cose bruciate alle fiamme. Il telefono viene lanciato parabolicamente al comodino, con poca pietà. Ora sta bene, ma un senso di angoscia lo stringe. Le notti di veglia ritornano. Il passato è presente, con ogni vicenda. E risoffre un dolore antico. Non vuole seppellirla di nuovo. Il livido crescente della carne lo macchia senza distinzione, arrossando certi punti del corpo. Lo scroscio di fiamme incoerenti dardeggiano contro l'abisso di piombo: lui, cadavere ripercosso dall'eternità. No. Di più. Talvolta il cadavere e talvolta colui che lo contempla. Domanda una tregua a sé stesso risollevando l'alto addome, vedendola con occhio malinconico di chi sa che sta costantemente vivendo l'ultima volta. Vorrebbe chiederglielo: in che modo mi son svegliato, negli ultimi giorni? Quale sogno ha accompagnato l'anima al limitare della luce? Lei, lì, è come un albero di fronte al sole obliquio. Gli atti manifestano ombre lunghe, sparse per la stanza, che nessuno misurerà. Stringe un poco il pugno meccanico. La vita non diventa che un'arma stretta a quel pugno, in attesa solo di esser scagliata. Le ossa sembrano diminuire di peso, di tutta la carne non vive se non il cuore. Se non fosse già accaduto qualcosa ora le scivolerebbe addosso, spianato nel letto, nella sua anima, nel suo corpo. Non ha più profondità o rilievo suo. Muore vivendo. Sogna di ripiegare la sua carne come un mantello, poi immagina di spiegarla e appenderla a un chiodo sporgente. Il muoversi molle delle dita è un bagliore di veggenza, da cui intuirne il pensiero. Stringi un po' tu, ora. Io sono impegnato. Abbassa un po' lo sguardo, sul collo, distinguendo tutte le ramificazioni dell'albero vascolare. Il corpo di entrambi diventa diafano. Lo scheletro si mostra esatto come in un disegno d'anatomia. Può contare le costole e le vertebre, ridisegnare facilmente la rete esigua dei nervi. La vita trabocca. Si versa da lui, stella cadente, a lei. Carne esangue contro carne esangue. La media aritmetica del loro egoismo glielo permette. Non sono forse uguali? Si poggia sulle sue labbra, versandosi da una banda all'altra. Il suo spirito liquido si versa come acqua di una fontana che cade da una statua e ricade all'altra. Un gesto che profana la bellezza, da quanto è terribile. Chiude l'occhio sinistro, rivedendo il ragno nero e immoto. Le anche sbattono. Il suo soffio penetra anche le finestre chiuse. L'uscio della porta geme di continuo. Non dovrebbe essere così piacevole, voluttuosa, la sofferenza. Un raggio furtivo di sola traversa il vetro, ingiallito, rischiarando il cotone che li circonda come bozzolo rotto. Un merlo chioccola tanto forte che sembra esser posato dentro la stanza. "Giudicami." E' un tronco sanguinoso che abbevera di sè un granello di tutto il Paese del Vento. [Panico] Come Il picchio contro la sequoia, la convinzione sempre più palese di un pensiero le tortura la tempia divenendo l'insidiosa ombra che nella notte ti porta a credere di essere inseguita. Deve aver riposto le armi dinnanzi al proprio aggressore poiché il motivo che animava la sua ira è venuto gradualmente meno. Lo ha fatto? Un istante di silenzio è necessario per goder delle forme di una luce prima che si allunga a macular la stola catturandone una peculiare bellezza con la coda dell'occhio. Ora che ci pensa, ora che si ferma davvero - ha mai guardato la luce in questo modo? Banale il pensiero romantico, che ridicolo ricercare l'angelica bellezza in qualcosa di così quotidiano - di così effimero, tanto passeggero da sentir già la dipartita nitidamente. La stupidità di chi volge i propri occhi al minuto - e perde ore intere a fissar un neo nei pressi della bocca risiede nel perdere poi, de facto, la visione celestiale del mutamento. Non si è mai persa, ne è certa. Ha sempre avuto un immagine ed un idea - ora invece sembra sfuocarsi. E l'aria alle labbra viene meno. Che fare? E' un ruscello termale che, sebbene cocciuto, si ritrova ad ammansirsi o ingrossarsi. Ripiega il capo d'innanzi ai suoi capricci divenendo niente più di un letto su cui gettare ombre. Eppure a me piaceva il sole. L'annullarsi del capo rende l'iride galassia; il ventre s'ingrossa ed il genio fiorisce sotto forma di orribili germogli. Essere prematuri non è mai un bene. Si è fragili, pur essendo delle promesse. Ha sentito il solletico, ha provato ad indovinare: Solo, supplichevole, eroe, amore, forte, agguerrito. Ah, no, non ha capito. Il chiarore scialbo ed intermittente della stanca lucidità la porta a virar le labbra in un musetto lamentoso e zuccherino. " Le tue erano risa. " Lo prende in giro, ma c'è del bonario voler vestire i panni della vittima. Il palmo allungato verso l'esterno osa ingabbiare un frammento di luce tra le falangi, soffocandola nel palmo. Ah, certamente vi farà ridere la convinzione d'ella di esserci riuscita. Eppure ora, quel luccichio, sembra appartenerle. Al di là del ventre del folle vi sono minuscole pozze di luce che giocano con un senso estetico grezzo e fiorente. Il sentimento di non aver mai realmente preso fiato si palesa nella turbolenza d'un cambio di direzione totalmente ingiusto. Sarebbe meschino affermare di non essere nel torto, quando fino a qualche tempo fa mai ti saresti fermata a guardare i ciliegi in fiore. La cupidigia dei pensieri non è che un'ombra nell'oceano che le splende fra le palpebre; dolce sadismo con cui si macchia d'un omicidio d'intenti, sembra essere un rumoroso passante nell'Arno. Un armonico vocalizzo la contorce, incastra tra le proprie labbra una libidine spontanea - inerme. Appaga lo sguardo beffardo con cui l'aveva osservata. Non importa, deridimi. O forse la tua arma, è puntato contro te stesso? L'inarcarsi del corpo sospinge appena le spalle contro la base morbida del cuscino - ed i lombi s'aizzano infervoriti. Sconvolti. Ma anche un po' pigri. Se solo potesse odiare, in questo momento, ringhierebbe. Tanto da terrorizzarlo. Ma dalla sua bocca esce il verso opposto al ringhio. Il respiro si fa' carico di rossori, piccoli e adorabili - che giocano a nascondino tra lentiggini timide. Si nasconde, a lui, lo sguardo. Travia il discorso e ritrova una risposta alla grande domanda che le aveva dipinto sul viso. Tramite gli oli di Caravaggio è certo che il non sapersi distinguere tra i tanti kanji non è una domanda, ma una risposta. Nene lo conferma. Ricco, abbondante, /immortale/, soldato, samurai. /Incomparabile/. Senza fine. Cima di Loto. "Tuttavia, no-n una fin-e orrib-ile." Il tono incerto le impiastriccia le labbra di una sostanza invisibile. Agonizza, ma non si sottrae. Lo vede, il suo arazzo. E l'abito che porta, ha delle orribili cuciture. Non aveva voglia di tenerlo addosso. Neanche Nene l'avrebbe voluto. Il promontorio sembra levarsi e ricordargli qualcosa - di esser stato suo, di aver lasciato solchi nella sabbia che ancora non son stati spazzati via dal vento. Il tremolio delle corde vocali è proibitivo, serafico. Niente può toccarla, metaforicamente. Niente può farle distorcere gli occhi dal quadro, ed il proprio amore da narciso nello specchiarsi nell'iride nera e trovarsi... Meravigliosa. Estasiata. L'afrodisiaco passaggio delle unghie della mancina lungo il laterale del pettorale destro la porta a rialzar la nuca. Ogni pigolìo delle anche trova di che confermarsi, risposte certe - e nessun ombra. Il tratto dell'artista ripercorre la santità dell'espressione - non veramente del soggetto. L'estasi della realizzazione. Dell'anelare. Del raggiungersi e. Sentirsi. Raggiunti. Da Dio. "Ne basta una scintilla, per un incendio. Purifica. Forgia. E non c'è versione di esso che non lasci qualcosa al proprio passaggio." L'eco del proprio invece, è pigro ed arrossato. Il respiro s'avvicina, gli ritorna un favore che la fece tremare. Un istante par mille anni - ma è successo un frangente fa'. Glielo torna, certo, ma con l'inferiore dei suoi petali. Con la risalita spasmodica da osso - pizzicato tra labbra secche - alla risalita. Deve esser un monte, se l'ha desiderato scalare? L'istinto di crear per lui una nicchia dove adagiarsi la porta a levar le ginocchia, a far ricader i suoi fianchi nel centro perfetto, ma di certo si cura di non appesantirne le anche. Solo di torturarle. Ubriaco viandante che ne chiede ancora, un altro sorso d'ambrosia. Il mento issato. Le labbra schiuse. Dalle ciglia la bassa marea risale la notte, ci si perde, creano un paesaggio differente. Distorto. E s'abbevera, forse l'ha voluta rendere felice. Voleva la sua gola meno arsa - e lei, accetta le sue cure. Egoista e capricciosa. Fermati, stai di nuovo peccando; le parole rivolte a se stessa suonano sciocche e empie, di troppo, come è stato il resto del mondo alla fine. Il formularsi del pensiero dischiude le labbra, muove rilento ingranaggi allentati. Le falangi l'hanno soffocato nel terrore di vederlo scappare. Nel terrore di vedersi levar la propria coppa di vino, sanguinolento e speziato. Il tenue arrivo del mattino rende le luci differenti e finalmente s'avvede d'una distorsione nel proprio idillio. E' già arrivato giorno? Le ciglia battono, le labbra bagnate si vedono in raccolta di tutto ciò che l'ha macchiata. Fiele. Delizioso. Ancora. Un pensiero scostante e una disattenzione perenne. Del resto accanto ad un immenso arazzo, dai suoi bui e dalle sue luci così vivide e veritiere, quadri e opere minori risulterebbero irrilevanti. Ah, ora anche lei ha certezze. Trasale, risale, egoista. E come il fuoco, se non preso in tempo, brucia tutto - ma solo per render fertili le carni. Un tremito violento la smuove, lo stesso tonfo del cellulare ha decretato una fine e di conseguenza, un inizio. Giudicami. Scuote il capo, giudicarlo? Spetta a chi è sopra. A chi ha potere di parola. S'adombra, s'illumina - quella stessa trave di luce le scivola sul viso. Le ciglia ricurve aprono un cratere alla sua volta. Creano la visione. Le screziature dell'iride chiedono a Fuji se vuol sentire una storia proibita. Invisibili sfumature rossastre brancolano nell'artico asettico del proprio spettro - e la pupilla baciata si stringe tanto da lamentar sofferenza. A volte ne vale la pena, se il risultato è quello. Si fa' conca di luce, straborda, s'erge eccitante e rigogliosa. L'iride. La mano. Il cenno di diniego muore, così come muore il rivolo alle sue labbra. Però, può esserne la guida. E può lasciarlo entrar nella propria iride. La statua su cui si rigetta allunga a lui le proprie mani, e lo porta altrove. Dove forse, esser giudicati, non è più cosi importante. Neanche se il resto del mondo ha un opinione, lo è. Ostico, asfissiante, l'antro madido a cui si volta si rende angusto. Non vuole nessuno. Ma è lei ad esser eretta ad imperatrice, ad unica costellazione di valenza. Galassie intere esplodono sul suo viso, ed una Proxima tra le labbra brilla illuminandogli il viso. Il peccato e l'estasi si rincorrono in venerazione, sembrano entrambe facce di una medaglia proibizionista. Come il suo viso si contorce, e l'iride donata a lui - si perde. Se solo non fosse scappato dalle sue braccia. Dalla sua bocca si fa' scempio puro. E' volgare? E' volgare rendersi oggetto d'arte? Avreste l'anima d'aggredir questo marmo innamorato? Il lamento sfugge e nella bocca di Fuji, sembra propagarsi tanto alto - quanto ovattato. Non avrebbe dovuto dilungarsi tanto ma - non ricorda. Non ricorda cosa sia successo per arrivare fino a qui. Non ricorda in quale momento ha iniziato ha guardar i fuori dalla finestra. Non ricorda quando per la prima volta, gli ha sorriso. Ogni suo giudizio sarebbe banale, ora lo sa' bene. Direbbe cavolate, e Fuji ne sarebbe inorridito. Direbbe quanto trovi meraviglioso il suo combattimento. E Fuji la troverebbe distorta. Stupida. Quanto forte, eroico, affascinante, talentuoso. Quanto il neo sia lì - non per infastidirla. E la sua voce quì, per dirle ciò che vuole udire. No. "Ti -- a." Sarebbe fatta, finita. Gettati oltre la linea quando poteva sentirla proprio vicino al proprio tallone. Finita quel recipiente di vita che si leva, che lo cerca. Il petto che si leva, si riempie, si schiaccia contro il suo. E quando lo sguardo muore, il collo muove il viso a poter far combaciare i propri bordi frastagliati. Cercarne di simili. Il bocciolo in fioritura, quella di cui tanto abbiamo parlato - vorrebbe sussurrargli una possessione inadeguata. Riempirsene gli occhi e l'anima. Orrido? Terribile? Dissacrare? Oh, no. Assolutamente. E sul punto d'oltrepassar la linea del precetti, con le labbra che l'hanno solo sfiorato. Cerca di sfamarsene. Di sfamarlo a sua volta. Sa' cosa vuole. E lei lo ha in tasca, pronto, spaventato, ma inevitabile. " Tu -- sei - l'unico con cui-- " Rompe l'amore, lo specchio del proprio riflesso respira zucchero dalle proprie labbra. E' lì, ne senti il profumo? Dolce, maturo. Inaspettato. S'è fatta distruggere e l'opera compiuta, è ancora più meravigliosa. Consapevole. Con occhi immensi, sicché possa starci la bellezza dell'arte. Un urlo fende il respiro, il polso insorto ferma la sua parata verso oblio amato. La realtà le schiaffeggia il viso lasciandole un espressione attonita. Il cellulare riproduce la parola 'fedeltà' in modo così costante, da darle fastidio. Da render le proprie spalle nevrotiche ed il proprio capo appena più sveglio. Il cellulare. Ah, sì, il cellulare. La mano si allunga, si ferma la sua avanzata. Dal suo cuscino esce uno schermo piatto illuminato con un numero in serie. 'Sedicesimo: Kenpachi-dono' ... Perchè dovrebbe chiamarla? E' sofferente la risalita dall'inferno, trovando ne pace ne malessere. Solo banalità. Non può evitar la chiamata alle armi, chi di guerra si sfama. " Mhn. " ... " Devo andare... " Ora - con il fianco bellico che lo sfiora. Si lascia in ombra di chi oramai s'è ammutinato e ricade in venerea consolazione contro la pelle di pesca. S'allunga, infame, luciferina. Ed ogni dubbio è oramai certezza. Come il proprio loto s'è dedicato a lui, come le anche ora che s'allungano in un ripiegarsi contro il pavimento - premano per rispondere al telefono. Lo invita, ad esser egoista. O lasciarla uscire dal proprio appartamento. Come se fosse stato un brutto sogno. Qualcuno al di la della cornetta le dice che è mancata a due allenamenti, e che non frega un cazzo a nessuno se sta male. Espira, bestiola, lascia che le ginocchia slittino ad appiattir finalmente il ventre contro il lenzuolo. Il grande segreto è stato smascherato da lui, del resto. Si sfiora le labbra. E l'amarezza di non aver avuto nemmeno un morso delle sue labbra, le lascia uno sguardo annebbiato. Forse ha frainteso. Dovrebbe smetterla. Lo osserva in riflesso alla propria cornetta, alle sue spalle. " Sì, arrivo... " E l'issarsi dei monti all'orizzonte è solo il pretesto per il loro separarsi - il muoversi di un costato minuto, della vita esile. Le fossette creano bacini d'ombra e la sua ricerca, sembra esausta. Promettere e non mantenere. Un ondeggiare storto, intrecciato - in cui la leva si sposta a superar i suoi fianchi, amareggiarlo. Ricordargli fin dove ha viaggiato, e dove non è riuscito ad arrivare. Canti d'ossa tremano - di ciocche corvine ch mostrano la nuca. La vergogna e l'orgoglio in un codice che è l'alpha e l'omega del suo essere. Il suo passato, il suo presente, ed il suo futuro. Il verdastro delle lettere e dei numeri si piega con l'arcuarsi della schiena. Lascia cadere il polso, il cellulare, la mano. Rimbalza due volte sul materasso, poi muore. Deve andare. Deve andare? Una giornata tòrbida. Gli occhietti, resi pigri, spiano le vicissitudini della luce nello specchio di contro, fissandosi su quel palmo che vanamente prova ad afferrare fotoni. Ah. Dovrebbe dirglielo forse, che non è possibile farlo. E allora risale con le pupille, cerca il viso. "Bada.." La ammonisce, giocosamente, in risposta al suo diletto. Una nuvola passa, ed il sole viene meno, par che tutto si freddi. Anche lui. Lo specchio di fronte si congela ovunque tranne che negli occhi. Lo sguardo, ah, lo sguardo... Il flutto di saliva che scende è rumoroso. Sotto il suo vestito, la vera pelle rabbrividisce. Il silenzio ha qualità liturgiche, è inviolabile. Quanta tristezza sparge ogni cosa sui di lui. Il silenzio breve non gli da pace. L'infelicità non viene più per l'aria, per il futuro, non proviene più dall'alto. Oggi è accasciata ai suoi piedi, senza ali. Dorme quando lei parla e sussulta nei silenzi, violando lui. Nell'occhio bendato da ciocche nere i riflessi dell'iride si formano in nuclei, poi svaniscono e ritornano. Battono, quasi come si stessero illudendo d'esser divenuti il suo cuore. Tenui macchie dello stesso colore che appaiono e scompaiono: è il colore del peccaminoso. Perché per quanto assorba luce, non riflette altro nero. Rende solo ammirazione. La nuvola si disperde, finalmente. Il sole è nuovamente libero e riflettendo su ogni vetro ed elemento del paesaggio getta su di loro ombre che ricordano la fioritura dei glicini. Fioriscono a destra del muro, creando una trama d'ombre insolita per la parete. Poi, al sollevarsi del sole, ogni cosa viene coronata da quella fioritura. Gli ritorna allo spirito un'antica e perduta duna del Paese del Vento. I ginocchi sanguinavano, sporcando la sabbia di sangue. La rotula scoperta biancheggiava nel sangue. Ed avanzava, strisciando sulla sabbia e contribuendo all'appiattirsi della duna. Andare avanti la ucciderà? Una gamba sovrapposta all'altra, di lei, un po' piegata, con un'attitudine che riconduce nelle movenze un che di Giudesco. Anche il traditore, il giorno dell'Ultima Cena, era seduto con le gambe accavallate. Ma lei, lo vede. E' cupa la realizzazione, tanto è grande l'ombra che getta sul mondo. Istintivamente annulla il ripiego dei ginocchi. L'importanza di quel movimento è personale, ossequio a lei. Una delle cuciture, sfaldata, cade giù da quel letto, levandosi con un respiro pesante. La stanza è piena di crepuscolo violaceo. Ed il suo viso nudo è bianchissimo quando riceve il suo stesso pensiero. Bruciare, non è poi così male. Il cuore si gonfia d'improvviso. Ha un breve tremito nei muscoli, come se dovesse scattare in piedi, ma si trattiene. La figura di lei gli splende dentro con tal vivezza che ne è attonito, con un'attitudine che egli vede luminosa. La bocca emana luce, ed il tremore intimo e profondo si svela al suo petto per quel che è: realizzazione. Chissà quanto amareggiata sarebbe stata, Icaro, se fosse sopravvissuta alla caduta. Un velo torbido rischiara gli occhi del marionettista. La creatura ambiziosa, volante, diventa retorica. Se fosse morta, sarebbe stata strappata della vita prima di appassire. Ah. Certamente lo odierebbe se fosse viva, perché è così debole. Gli strapperebbe di dosso ogni cosa, per il gusto di farlo. Anche perché lui non è riuscito a prendere il volo. Guardando la Doku, forse è meglio così. Vivere. Eppure, se anche fosse viva, la figura mitica, se anche fosse stata così sfortunata... anche allora, una fine non così orribile. Impeto di vita. Anche Fuji, vuole vivere. Contro tutte le volontà. Il mento si alza, con occhi docili, un po' chiusi, un po' sofferti. Pieni di passioni romantiche. Anche il personaggio idolatrato era troppo debole per vivere, ma troppo coraggioso per morire. La risalita lo prende di sorpresa. Solleva di più il mento, tende il collo, offre di più. E' coperto di rossori, fiati caldi. Una rondine grida con lui, passando lì, per il cielo là fuori. Poi c'è il cielo qua dentro. Le proprie dita trovano un noto di capelli e lo stringono con infinita cautela, come se volesse rubarle un tesoro. "Non così orribile." Trasale, assieme a lei, aprendo le labbra come a gettare un ennesimo verso, ma senza suono. Poi, tutto il sollevarsi del mento viene annullato in una sola rovinosa caduta, verso i suoi occhi. Verso l'altra statua. Un viso è fatto di carne e ossa, forato dalle cavità dei sensi. Lo sapeva già, ma ora è sorprendente. La mano venefica risale. Il respiro si spezza; la capellatura che sfiorava a malapena diviene ora una massa viva in cui riempire la mano, rendendola pesante. Dove lo sta portando? Il timore in lui non è che una tela vuota. Spazio infinito che la collisione tra galassie potrà riempire. Nel suo ultimo attimo di vita, ha poche finali realizzazioni. Quel viso non è se non un frutto aereo della propria anima, e la chioma trattenuta s'è incarnata per diventare effige di sentimenti straordinari, fatti per rapire l'anima. Lui, ora, profuma di lilla e vaniglia. Profuma di annunziazione. E' un profumo terribilmente infantile. E non rimarrà che come traccia in quel letto. Ultimo testimone di arte che diventa per lui l'essenza stessa dell'amore amato. Facciamo qualcosa di sempre più bello, potente, supremo. Guidato, appare senza più rumore. Guidato come un uccello sopra un ramo leggero ed aspettando che questo cessi di oscillare per intraprendere un canto. Ha prolungato il più possibile il voluttuoso gesto. Memento vivere, Fuji. Ecco, non ha più l'ansia del tempo. Le mani non sono che forme della sua spiritualità. Il sorriso della creatura stanca e felice sembra immortale. Anche lui lo è, allora. Così vicino che al chiudersi degli occhi, le proprie lunghe ciglia potrebbero sfiorare le sue. Ora ella piega la testa, con quell'atto di far combaciare le labbra. E le sue parole lo raggiungono, portandolo a spalancare gli occhi. Il corpo è cedevole. Il suo occhio diventa un mucchietto di cenere su un tizzo vivo. Il cuore è gonfio di una dolcezza così pura che non può neanche elaborarla ora, così. Tiene il torso rigido, il collo eretto, la testa riversa all'indietro. Gli occhi infermi di una malattia nuova fissano gli incavi dell'altro viso. Se il piatto fosse pieno di lacrime, o sangue, non ne cadrebbe una stilla, tanto è abile la sua cautela. Al raggiungimento del momento Aureo i suoi piedi si fanno più lievi sul letto, come la zampa di un animale che traversa la prateria. Di qua e di là il suo viso prende il colorito delle prugne. Il silenzio è perfetto, eguale nella luce e nell'ombra. Poi, rumore. L'unico? Lo? --a? La pietà, la disperazione, il terrore, il desiderio di dare il sangue e il soffio, l'attesa del miracolo, lo splendore fatale dell'Orsa. L'intera Via Lattea è prossima come un cammino che si biforca dallo spazio per avvicinarsi alla strada terrestre. Il movimento alterno delle forze sconosciute, tra monte e mare, come il passaggio di un dio rapido che non ode la preghiera e non guarda l'offerta. Tremito invincibile della carne, come volontà armata contro la morte. Fissa contro di lei gli occhi molli e selvaggi di chi si è visto la vittoria fuggire. L'interruzione si fa in lui in forma di cadenza. Non mormora più, non canta, quasi non respira. La piegatura dei gomiti, i lenzuoli a terra, una stilla di lei che bagna il cuscino. Tutte le sue membra obbediscono a una musica persuasiva. "Sì!" Interruzione. Nene? Venerea consolazione, ma anche troppo magra. Strano, all'inizio di tutto questo persino un breve contatto era poco esiguo. Ora sarebbe insufficiente. In quell'interruzione la bocca ricorda di aver saggiato la testa di un papavero involta in una pezzuola molle. Le onde dello sgomento si disperdono ovunque, straripano dal sudore che, sulla pelle, diventa freddo. Immagina una grande febbre, un'agonia subitanea che gli serra la gola per limitare i gemiti. Accetta il supplizio, immobile. Mistero della bontà. Ora ne vuoi di più? La bocca arsa dal fiele risoffia lo spirito e la speranza. Deve andare? La carne è solo carne. Non la sua. L'ha capito. Un presagio della Sirenetta l'ha illuso. Nell'aria della resurrezione sente passare un soffio straziato e consumato. Il respiro più doloro tra tutti quelli che lui le ha mostrato oggi. Sente alla gola come una piccola bestia che corre perdutamente per le sue carni, tentando di aprirsi con le zampe una via. Il sole lo bacia, illumina gli occhi. Ma i suoi mali non vengono placcati. Nessuno dei due. Il buon presagio è vano. La perfezione dell'Arte rinata è fugacissima. Gli sembra di vedere i suoi petali schiudersi di attimo in attimo. Ecco riacquistato l'orecchio e gli occhi del poeta. Riode la melodia del perpetuo fluire. So che tornerai. La pietà lo abbandona, rendendolo più umano. "Dimmi almeno--" Tutto il cuore è guasto. Il protagonista, lo ricordate? Intento, come è sempre stato, non combatte l'arsura. Va contro il suo padrone. Teso, alla ricerca di una corona, di una piaga nettarea. Chi si nutre di bellezza cresce in bellezza. Indugia, lo farebbe per sempre. Ripassa il confine. Languore d'Aprile. Assume un tono indicibile entrando nell'ombra. Poi, si ferma. Immobile. Vicino, al limite. I suoi occhi scontano l'indulgenza di ieri, soffocando. E' palese, a lei, il suo pensiero. Il suo crucciarsi. Sa che delira, e dòmina il suo delirio. Ha sete, ma ha ricevuto un sacco di che abbeverarsi. L'immagine del fiume lo supera, lo sommerge, gli corre sopra. L'immagine del fiume rifluisce, gli scroscia sul viso. L'aspirazione dell'eroismo soffia anche su gli invalidi, anche sulle carcasse impotenti. Ora, è senz'ali. C'è una gloria dell'alto e una del profondo. Una morte brutta ed una ancor più brutta. La mano meccanica prova a placare il suo possessore gettandosi nella mano di lei, posata sulla proda. La mano destra trema un poco, di sotto al suo profilo. "Se ci fosse una morte bella, in rinuncia alla vita, viviamola" E' una richiesta di promessa. Se davvero esiste una bellezza che rifiuto, mostramela. E sé e solo sé dovrai rinunciare alla vita, fallo per la bellezza. "Non vale la pena altra morte" Se non la migliore. Arido fegato. Poi, lampo. Vieni e scioglimi, Nene. Scucimi e rinsalda le rotelle della vertebra; vieni e rinfondimi sale e ferro nel sangue. Vieni e riforgiami con il mio fegato arido, in quanto quest'arsura è per me massima espressione d'arte. Ha messo la bocca nella pienezza della morte. Ed ora l'entità non è più un'apparizione, ma presenza continua. L'hai fatto. Riscagliarlo nella battaglia. "Grazie." [Panico] L'avarizia la porta a stringer incoscientemente un laccio attorno al collo del proprio amante appeso; tra le creste biancheggianti d'un mare di cotone pallido e le falangi si fanno arpie - le unghie lame affilate - e il proprio labbro ricettacolo d'estetica e vizio. Si stropiccia, s'appiccica al materasso - s'amalgama in respiro e riverbero delle corde vocali. La mano che vestiva sicurezza non lo è più, ora che la sua la intercetta. Un tremito la smuove alla fuga, un tremito la immobilizza alle sue falangi. L'uroboro insensato dei movimenti sembra arrestarsi, innazar la sua voce e sminuire quello che adesso sembra lo sciocco desiderio d'andarsene, d'anteporre qualcosa alla beltà. Oh, parliamoci - lettore. C'è veramente qualcosa di più importante? L'occhio rimane estasiato, le labbra lasciano versi di miele per il suo fedele ascoltatore - e quella traversa di luce sembra un occhio focale su tutto ciò che è veramente importante osservare. Come schiude i suoi petali e smuove il petto - appena schiacciato contro il materasso. Come le spalle incalzano un levarsi, ridipingono nelle clavicole una scogliera d'epidermide da cui non farebbe così paura tuffarsi. Non può scappare. Non può urlare. Non può vedere niente tant'è grande l'ombra sulla propria radura - e per la prima volta - brancolare nel buio non le incute timore. Che fare, soldato? Il respiro si fa' liquido e le labbra lucide rantolano di un lamento incomprensibile in risposta alla domanda, che non una domanda non è. La suoneria del cellulare è il distopico nemico al di la della propria fragile avanguardia - la Shirasaya; comprende d'essersi gettata alla volta della lama e di averla vista e sentita fenderle il petto, poi lo stomaco - e solamente in fine il cuore. Ah, insegnatemi, come odiare le labbra di caramella del mio peggior nemico? La sofferenza distorce la carne tanto da crear monti e crateri di creta pallida tra scapole, dorsali e costole. Il respiro la muove, fragile ed agguerrita marionetta. E se vuoi tanto scappare, perchè chiami il suo nome? La più dolce nenia le lascia le labbra tirando a se il lenzuolo come se scioccamente potesse sparire nascondendosi il viso. Il crine come piume di corvo indispettito. Ciocche mozzate, nero assoluto, in guerra. Che importanza ha il tuo nome ora, Fuji? La bocca di Nene lo rende immenso, poi ridotto, poi un canto - pregando per averne ancora un po'. O per aver la forza di ricordarsi chi è. E che deve scappare. " Eiyuu -- " Quando ne richiama l'attenzione però, il nome che le esce dalle labbra è differente. Il filo rosso con cui lo stava asfissiando le lascia la gola in rifresco - ed un filo d'ossigeno le carezza nuovamente le labbra. M'è mancato così a lungo? Vestita di chaos e galassie intere. Dopo aver cantato costellazioni che lui ha sempre cercato in modo così spasmodico. La raccolta delle leve è dolorosa e la schiena tanto minuta - che associarla a quella di un mostro ci lascerebbe un risolino incastrato nella trachea. L'orrido abbandono. E le gote secche. La mente vuota. Il tempo scorre e lei non ha mai nemmeno volto lo sguardo all'orologio, ma quando la propria ombra smette di possedere il marionettista per un fiotto di luce - il lavico pensiero di lasciare questa stanza rende le parole empie. E le risposte piccole. Dopo aver visto qualcosa d'immenso, tutto il resto sembra insulso. Anche la visione al di la della finestra. E' lei ad osservare fuori - o chiunque lì fuori, sta osservando loro? Si cruccia, figurino immerso nella fioritura. Tavolozza di colori, di luci - ricettacolo d'attenzioni. Ah, capisco. E' questo il dovere. E' questo, il miracolo. L'occhio si riempie di luce e la riflette verso quel che ne rimane. Le ciocche corvine che cadono sulla fronte di lui, le labbra umide, l'espressione che trasuda da lui. Dalle sue parole. Ne avevi bisogno? L'urlo di disperazione le distrugge i timpani e le ciglia, reagiscono ad una sorpresa immotivata. Nessuno guarda dietro al quadro. Nessuno capirebbe l'espressione di Botticelli d'innanzi alla sua venere. O di Cosimo nell'immaginar la sua amata cupola, nell'ossessionarsene. Deve esser passato troppo tempo quindi - le labbra si schiudono. S'evince l'imbarazzo, il rossore che le colora il muso e le gote. Consumata. Cava, ma non del tutto. " Anche se fosse bella, non è comunque la morte? " Non dovrebbero avere paura? E la domanda la ricurva appena in quel che si nasconde lì - in quel che sembra aver abbandonato le proprie decomposte spoglie cucite assieme male da un sarto che nulla avrebbe voluto tener assieme. La verità, è che stavi vacillando? Crescendo, i capi piccoli ti fanno sembrare buffo, costretto, scomodo. Deve esser seccante, nascondersi. Il curvarsi del materasso sotto il peso del ginocchio, il ribaltarsi delle rive al suo cospetto. Lo sfiorarsi del petto posato pigramente sul suo dorso; deve provocar un piacevole solletico la sensazione di quei nastri d'ebano al altezza della nuca. Il peso esiguo con cui lo costringe è un malinconico commiato all'eroe della nostra narrativa. C'era il sole, ne era sicura. Ed ora, quel mare limpido sembra veder un alone grigio tutt'attorno. " Deve avere poca importanza ---. " Una passata d'acqua sopprime le storie scritte sulla sabbia, si suppone. Eppure le labbra imprimono fuoco sull'apice della spina dorsale. Un marchio. Tizzoni ardenti vorrebbero trafiggerlo, trafiggerli entrambi. La mano nasconde nel palmo il cellulare e quelle fiaccole aprono una processione lungo il confine tra avangurdia e antico. Ha un che di meraviglia. Un sapore indistinguibile. Un canto le travia la tempia costringendosi al pensiero. Deve avere poca importanza il tempo, il modo, il luogo. Deve esser sopravvalutata la morte. O la sensazione di fine ineluttabile che essa ci da'. O forse, sembra assurdamente piccola ora. Domani riderà di se stessa, e del proprio becero pensiero. Non senza una fitta allo stomaco ne abbandona le carni, come un avvoltoio dopo aver banchettato. Si libera, in una scala di grigio tinto di cupidigia. Lo guarda - e forse è il discorso più lungo mai affrontato negli ultimi giorni. Il vento la reclama ed allora, l'occhio, osserva il proprio posto con l'amarezza di chi sta abbandonando qualcosa che non vorrebbe. Che non riavrà mai. O che riavrà, ma non allo stesso modo. O forse è questo che pensa. Ma sbaglia. Sbaglia? " Non ti nascondere da me. Mai più? " Ossequi all'entità, al nome ritrovato sotto l'iceberg di carne e organi. Una riverenza a chi è, a chi era, a chi sarà un giorno. L'ombra della velenista irradia, lascia una fioca fiammella e una risposta di troppo. Solo una volta fuori capirà che il tempo s'è fermato - o che forse ha avuto l'irrilevanza che merita. Il respiro centellina le labbra, nascondendo il proprio ciglio umettato con delle lenti più scure e una bottiglia di soju già consumata da qualcun altro. Ah. Chissà chi è stato? Il domanda risuona piccola però, come una sfumatura dietro occhiali dalla lente rosso intenso. Ha molto da affrontare. Ne hanno entrambi. [END]