Giocata

Giocata Invalida

0
0

14:06 Koichi:
  [Casa di Hikari.] Si dice che la realtà sia condizionata semplicemente da due fattori: dallo spazio e dal tempo. Regole universali, dogmi inscindibili, che non permettono alcuna variazione nel loro corso, in quel fluido e continuo percorso. Loro sembrerebbero dettare tutte quelle regole che ogni comune mortale deve attingere, per poter vivere, basando la propria esistenza in base a questi due cardini. Un costrutto apparentemente perfetto, come due sorelle che continuano il loro sentiero, a braccetto, senza preoccuparsi di tutti gli affanni che potrebbero lasciare alle proprie spalle, di tutto quel dolore che noi, semplici pedine, potremo acquisire. No, non posso rimanere vittima di tutto ciò, devo riuscire a sottrarmi e lasciar introdurre un'altra incognita. Chi la definisce come istinto oppure principio di volontà, un punto casuale che potrebbero piegare qualsiasi altra macro legge. Una brezza d'aria che possa spingere o rallentare quei due fattori principali, ma solo se questa raggiunga alti livelli, un requisito a dir poco impossibile per un mortale. Ma probabilmente sarebbe ciò a renderlo differente, diverso, come un pizzico di colore in quel mondo grigiastro. Detentore di una forza di volontà immensa, persecutore del proprio istinto, costantemente alimentato dai sentimenti che albergano all'interno del proprio corpo, all'interno del proprio subconscio, all'interno della propria anima, seppur questa condivisa da due entità. Non si arrenderebbe, non vorrebbe arrestare quel flusso che lo manterrebbe in vita, facendo circolare quel soffio vitale ancora al di sotto della propria pelle, quel dono che permetterebbe al proprio cuore di battere, ancora una volta, nonostante tutto. Nonostante tutto. Solo un idiota potrebbe riuscire in ciò, il più grande idiota! Quanti granelli di tempo saranno trascorsi all'interno di quella clessidra, che possa far comprendere quanto sia reo il tempo? Indefinito, perché non si possono utilizzare al momento altri elementi, l'intervallo di tempo che lo avrebbero portato a rimanere lì, dopo quella sera, quella maledetta notte, ove il ciclo che lo collegava alla Genin sarebbe dovuto terminare, con la conseguente scomparsa di quel sigillo, di quel segno, che è stato tracciato sul collo femminile. Un morso, con quella dentatura maschile che rinchiudeva la zona lesa, di quella violacea tinta che avrebbe dipinto con tanto desiderio della controparte. Una semplice richiesta: cercami perché ti attendo, trovami perché ti abbraccerò. Ed il semplice ricordo di quella scena, di quella pioggia che incessantemente cadeva sui loro capi, si ripeterebbe senza sosta dinanzi al proprio sguardo, quasi vuoto. Vitreo. Fotogrammi che andrebbero ad infastidire quasi la concentrazione del Chuunin, facendogli percorrere quel ciclo che lo rovinerebbe lentamente, come un pugnale conficcato nella zona del cuore impegnato in un moto lento, ma rotatorio. Non solo il danno, ma anche la beffa, di rimanere ancora condizionato da tutto ciò. Immobile, fermo, come se avesse acquisito una proprietà marmorea, come una scultura incantevole, un adone, mentre sarebbe stazionato al di sopra di un tetto, di una struttura indefinita; dopotutto, che senso avrebbe avuto sapere su cosa avrebbe oramai posto la propria permanenza? Che fosse una semplice abitazione o qualche negozio, a lui non tangeva affatto. L'importante era che potesse guardare, osservare, ciò che vi era al di là del sentiero che tagliava la linea visiva, sempre ed in qualsiasi istante; quasi avesse timore a sbattere le palpebre, per non perdere neanche un istante di quel panorama. Difatti, al di là del sentiero, dall'altra parte della strada, a pochi metri dalla sua posizione, avrebbe il terreno su cui s'erigeva una abitazione, un appartamento. Non uno qualsiasi, ma quello della Yoton, la tanto ambita ragazza. Vista aguzza verso quella superficie verticale, lignea: quella porta che avrebbe deciso di odiare con tutto se stesso, in quanto si poneva come impedimento, come ostacolo, del proprio obiettivo. No, non si sarebbe ancora atteso: innumerevoli ore del mattino e della sera, del pomeriggio e della notte. Ogni segno di quell'attesa sembrerebbe nullo rispetto alla propria decisione di attenderla, per inquadrarla ancora una volta, nel tentativo di consegnarle, anche se fosse inconsciamente al sapere altrui, un ultimo saluto, un addio degno di ciò che alberga dentro sé. Per quanto potesse essere esente nel dettare un cambiamento nelle proprie intenzioni, l'usura di quella legge universale si potrebbe facilmente notare: un vestiario quasi sporco, alquanto mal ridotto, un volto deturpato dall'assenza adeguata di cibo e di meritato sonno, provocando anche quelle occhiaie, linee che si estendevano dalla coda interna dei bulbi oculari. Malandato, facilmente riscontrabile per chiunque abbia potuto assaggiare il suo volto, nelle migliori situazioni, con quell'aria apparentemente tranquilla. Ora stizzito, sicuramente disturbato, da tutto a cui sarebbe sottomesso, nel mantenere vivo lo sguardo su quella porta che non avrebbe ricevuto neanche una minima vibrazione, neanche per un momento fugace. Lei si sarebbe rinchiusa lì da interi giorni, da un tempo pari o poco superiore rispetto alla propria permanenza; non sarebbe uscita, preferendo un totale abbandono della propria vita, come se avesse rinunciato ad essa: davvero il sottoscritto non conterebbe nulla per lei? Perché non lo avrebbe cercato, perché non si sarebbe neanche avventurata al di sotto di quel ciliegio secolare, in cui sembrerebbe aver presto tutto vita? Intanto il corpo, decisamente intorpidito data la posizione mantenuta, si terrebbe pronto ad un cambiamento, ad un potenziale movimento di quella porta, nel suo schiudersi. Attenderebbe solo quel fulmine a ciel sereno, in realtà. Perché in effetti non dovrebbe vederla ancora una volta? PercHé dovrebbe privarsi d'un qualcosa di così meraviglioso? Lei non l'ha cercato e questo rendeva chiaro, cristallino, il rifiuto completo; le loro strade non si sarebbe dovuto più toccare, neanche sfiorare, muovendosi come due linee vicine, potevano rasentarsi l'un con l'altro, ma senza un incrocio. Era questo il destino che incombeva su entrambi, probabilmente. Eppure perché sarebbe ancora lì, preferendo di deteriorarsi in tale modo, rischiando di mostrarsi in una condizione ben peggiore dei loro ultimi incontri? Domande logiche, comuni, ma che non troverebbero altrettante risposte. Nessuna, neanche un accenno minimo, se quella sensazione che oramai lo distruggeva: il naturale desiderio di catturarla ancora una volta, nella propria vita, seppur distante. L'avrebbe dovuta difendere, d'altro canto, da ogni pericolo. Ma non vi è già qualcuno che lo farebbe, al posto suo? Gelosia, vorrebbe anche nutrirla, se non fosse per quelle energie misere che andrebbero a diminuire gradualmente, preferendo conservarle per il proprio obiettivo, seppur si trovasse al punto di cedere, di trovarsi all'orlo di una caduta totale. Palpebre stanche, il respiro sicuramente non regolare: l'organismo, per quanto valido, inizierebbe a risentire di quegli effetti dannosi. <Uh...> Un respiro, d'improvviso, poco più pesante e carico di quelli precedenti. Mani che impongono dunque una pressione sufficiente sulle proprie gambe, tentando di farle nuovamente distendere, lentamente, per potersi erigere nuovamente in piedi, nella sua completa altezza, disponendo però di un precario equilibrio. Le gambe tremerebbero appena, così come le braccia, oltre alla percezione di aver compiuto un immane fatica, per quell'elementare movimento. Un cigolio, lento, proveniente all'interno della propria mente: quegli ingranaggi che inizierebbero a prendere nuovamente ritmo, seppur consumati, a circolare seppur con un movimento fin troppo meccanico. Potrebbe risultare complesso anche eseguire un pensiero più elaborato, date le proprie attuali incapacità; ma sarà proprio ciò a rendergli un fattore determinante, ad abbattere qualsiasi altro limite. Busto che si slancerebbe in avanti ed il restante corpo che sembrerebbe assecondare quella spinta, seppur non frutto di fluidità. Anzi dovrebbe fare anche attenzione a non caricare il peso del proprio corpo su un lato per troppo tempo, per prevenire di sbandare eccessivamente. Fortunatamente è notte fonda, prossimo al risveglio del prossimo sole, e ciò significa che per le strade non vi sia nessuno, a parte quest'ombra, questo spettro ambulante. Che stia caricando tutto se stesso, per un ultimo gesto, per un ultimo evento? Che sia questo l'ultimo atto dello spettacolo od una scena inedita, alla fine dei titoli di coda? Alquanto goffo, lo si potrà ammettere, mentre inizierebbe ad assumere man mano più velocità; non coordinato, ma sicuramente un potere che ancora nega il diritto d'esser un Chuunin a tutti gli effetti. Una locomotiva che prenderebbe vita, un impeto sicuramente dannoso, soprattutto se non arresterà il suo intercedere in tempo: Koichi, ma sei sicuro di ciò che stai facendo? Dovresti rallentare, prima che ...<!> Un colpo improvviso, rilasciato da quel braccio destro ripiegato su se stesso e posto in avanti, come se fosse uno scudo per il debole corpo che lo seguirebbe, per riuscire a sfondare la temibile porta. Una semplice torsione del busto, prima dell'impatto, per permettere di violare, se riuscisse, quel dominio privato, per distruggere i cardini che detengono la superficie immobile. Dovrebbe riuscire però a romperla, senza alcun ritegno e, dato lo sforzo appena compiuto, lasciare che il proprio corpo subisca il contraccolpo, cadendo al suolo, sull'uscio della porta. Dovrebbe ritrovarsi col fianco destro rivolto al suolo, mentre le braccia si pongono dinanzi al proprio capo. Esausto, in esplicita condizione di difficoltà. Eppure lo sguardo ambrato, d'un arancione non così carico e vivo, andrebbero a saettarsi altrove, a ricercare qualcosa o, per meglio dire, qualcuno. In che stanza si troverebbe, cosa gli sarebbe attorno e dove lei, ora che avrebbe distrutto quello che sembrava l'unico vero impedimento fisico, materiale. Non avrebbe proprio le forze di rialzarsi, dovendo impegnarsi per ruotare l'intero asse del busto e far presa sulle proprie leve, sia superiori che inferiori. Palmi e ginocchie che strofinerebbero contro il suolo, caricandosi il peso del tronco e della testa che continuerebbe a torcerci, come se fosse indemoniato. Striscerebbe per il pavimento, almeno per un paio di metri, quanto basta per tentare di realizzare la sua necessità. Un semplice mugugno intanto che andrebbe ad esternarsi, debolmente, dalle proprie labbra: sentirebbe il dolore dello sfondamento e di quella caduta. Ma le sue percezioni sono futili, un dolore fisico che rasenterebbe il nulla, rispetto a tutto il resto, rispetto al proprio sguardo che, impazientemente, si piegherebbe in più direzioni. <Hika-Chan.> Un sussurro, quasi un soffio di fonemi inavvertibile, prima di sentire le forze venire sempre meno, quasi risucchiate, come una fiamma che ha deciso di illuminare tutta la stanza buia, prima di affievolirsi lentamente. Dove sei, dove c***o sei, Hikari? [Chakra Off][Equip.Scheda]

15:05 Hikari:
 Apre gli occhi. Diverse volte il sole è salito in cielo, diverse volte ha segnato l’inizio di un nuovo giorno, e altrettante è scomparso dietro l’orizzonte, dichirandone la fine. Ma cosa avrebbe potuto vedere lei dalle finestre del proprio monolocale, situato in una piccola traversa, una ramificazione della strada principale del Terzo Cerchio di Kusa. Semplici tinte rossastre di luce che tingevano il cielo, senza effettivamente riuscire a scorgere quella sfera infuocata che tutto riscalda. Non ha contato quante volte questo processo si sia presentato, dato l’inesistente desiderio di anche solo prendere una boccata d’aria. Un piatta e apparente calma che abita quel luogo, pieno di tacita sofferenza e solitudine. Chiunque avesse voluto entrarvi, avrebbe subito percepito oltre la soglia un’aria pesante, grave, ricca di negatività. Una penombra mista di rossi, viola, grigi, e tanto nero. Chiaramente, in senso figurato. L’aura spensierata che circondava la giovane Yoton fino a qualche mese prima ormai è scomparsa completamente. Sì, si è arresa. Sì, si è lasciata andare. Sì, ha smesso di lottare. Lo ha perso, non è tornato. Bene, non c’è più nulla da fare. La consapevolezza della sconfitta ha fatto strada nell’animo della ragazza come un fluido denso e oscuro, ricoprendolo in tutta la sua interezza. Un’anima nera ormai, che solitamente non si addirebbe a una ragazza della sua età. Insomma, venti anni, il fiore dell’età. Si guarda attorno, in quella penombra segnata dalle ore notturne. Come ogni notte ormai, il sonno va e viene, scherza con lei, le fa credere che le braccia di Morfeo siano pronte ad accoglierla, mentre l’abbraccio dura in realtà pochi minuti. E’ sola, come ogni volta. Fino a qualche giorno prima sperava che aprendo gli occhi, e dirigendo lo sguardo verso la base del proprio letto, riuscisse a scorgere la sagoma di Shitsui. Alcune volta è persino stata vittima di allucinazioni simili. Il cibo si ha cominciato ad essere una necessità sempre meno presente, così come il sistemarsi, profumarsi, guardarsi allo specchio. L’ultima volta che ha avuto il coraggio di farlo è stato perché le era venuta la naturale idea di mettere il naso fuori di casa, respirare un’aria diversa che non sapesse di chiuso. Aveva raggiunto quella superficie riflettente, e si era fermata. Immobile dinanzi ad una figura che l’ha fatta spaventare. Le labbra si erano mosse in un sussurro, flebile e leggero, in contrasto con la pesantezza dell’atmosfera. “Chi sei?” queste le parole pronunciate dinanzi a se stessa. Le iridi castane, spente, le cui pupille erano due enormi pozzi neri, erano fisse, bloccate in quelle del riflesso. Sono io, aveva pensato, sono veramente io. Eppure, nonostante questa affermazione, non aveva realizzato quanto quella versione di se stessa fosse attuale, e senza tale realizzazione, l’idea di tornare ad essere quella di una volta, almeno all’esterno, non le era balenata minimamente per la testa. Si siede sul letto ora, curva, con i capelli spettinati che le ricadono lungo le spalle e la schiena. Sono cresciuti rispetto a qualche tempo prima, ma son stati talmente trascurati da aver favorito la creazione di doppie punte. Il pigiama che avvolge il corpo femminile è composto solamente dalla parte superiore, ovvero una maglietta piuttosto larga che funge da vestito. E’ ciò che usa per dormire da sempre, ormai, è uno dei pochi indumenti utilizzati in questo periodo di hiatus. Guarderebbe prima a destra, verso la porta di casa, poi a sinistra, in direzione della finestra. Anche quest’oggi potrà assistere distrattamente al tingersi del cielo, alla sua mutazione da scuro a chiaro. Si alza in piedi, diretta proprio verso quella superficie vitrea che la separa dall’esterno. Cammina nell’ombra, ascoltando lo scricchiolio del pavimento sotto i piedi scalzi. Si solleva sulle punte poi, cercando di darsi la spinta necessaria per potersi inginocchiare sul davanzale interno della finestra, per poi sedervisi. La schiena poggiata contro la parete, mentre il capo contro il vetro. Non vi è anima viva che percorra le strade del villaggio dell’Erba a quell’ora, com’è giusto che sia. Invidia così tanto tutti coloro che in questo momento stanno riposando. Vorrebbe farlo anche lei, e forse dovrebbe valutare l’idea di assumere qualcosa per tranquillizzarsi. Si chiede come mai stia così, come mai si sia ritrovata in questa situazione. La rassegnazione non comporta spesso una velata tranquillità? Perché è ancora agitata? Perché non riesce a dormire, a mangiare? Le brucia lo stomaco, ogni cosa la innervosisce. Quando arriva il giorno, nasconde sempre la testa sotto il cuscino per evitare di sentire i suoni della quotidianità, quella che lei si sta impedendo di vivere. E’ scomparso, il suo amato, e non ha nemmeno il coraggio di pronunciare il suo nome. Ha chiuso, basta. Non lo aspetterà più. E’ passato troppo tempo, ed ora deve solo trovare una motivazione valida, quella che potrebbe farle meno male, e convincersene. Sguardo perso nella notte mentre cerca di evitare tutte queste congetture. Distrattamente la mano accarezza il collo, ricordandosi di un gesto. Si fermano le dita nell’esatto punto in cui il Chuunin, tempo prima, le aveva impresso un secondo segno (dopo quello sui polsi). Un ultimatum, ecco cos’era. Sette giorni di tempo per andare a cercarlo e aprirgli tutte le porte. Ma non l’ha fatto, lei, ha continuato a sperare che il Seiun tornasse, ma invano. Ormai la settimana è passata, il tempo è scaduto. Li ha persi entrambi, per amore. Probabilmente non li rivedrà mai più, né l’uno nell’altro. E forse è questa idea che la tiene prigioniera in casa, che le attanaglia la mente, che le lacera il cuore. Ah, che atroce dolore l’amore. Solleva appena il capo, allontanandolo dal vetro della finestra, per poi riavvicinarlo, impattando contro di esso. Ripete l’azione più volte, a mo’ di sciocca tortura. Un disastro, Hikari. Un colpo, un altro, seguito da altri. Ma ecco che prima di dare l’ennesimo, un rumore ben più ambio rimbomba nella stanza. Aria nuova, fresca, invade l’ambiente e lo riempie come acqua in un contenitore. Che bella sensazione, che freschezza. Ma sarebbe meglio concentrarsi sul motivo di quella boccata d’aria. Capo che si volterebbe immediatamente in direzione della porta d’ingresso, notando che i cardini, seppure in penombra, non sono più al loro posto. La porta è praticamente sgangherata e sull’uscio, riversa a terra, una figura maschile. Alta, familiare. Capelli blu, iridi ambrate. Non brillano in quel buio velato, al contrario delle volte precedenti. Koichi. Un brivido di paura percorre le deboli membra della giovane, che assiste sconcertata a quell’episodio. Vorrebbe parlare, ma non ne ha la forza. Lo osserverebbe sostenersi sugli altri, tutti e quattro, al fine ti strisciare a terra per un paio di metri. Non respira lei, ma si limita ad osservarlo, come una preda che vuole nascondersi. Si guarda attorno il Chuunin, chiaramente alla ricerca di qualcosa, o meglio, di lei. Sente chiamarsi, quella voce che aveva creduto di non sentire mai più. Un soffio tiepido sul cuore, rappreso e congelato da tutta la negatività accumulatasi in quei giorni. < Ko… Koichi? > voce roca, di chi non parla da tempo. Quasi aveva dimenticato il suono della propria voce. E’ lui, è proprio lui. Abbandonerebbe il davanzale su cui è seduta, per compiere quei due passi che la separano dal Goryo. LE cambe cederebbero una volta raggiunto l’altro, inginocchiandosi dinanzi a lui. Entrambi senza forze i due giovani. La luce che usava brillare negli occhi del ragazzo è scomparsa, rendendolo quasi irriconoscibile. In un gesto timido, Hikari allungherebbe la mano verso il viso altrui, mettendo da parte il fatto che sia appena piombato in casa sua, letteralmente, sfondandole la porta. E’ contenta di vederlo.

16:07 Koichi:
  [Casa di Hikari.] E finalmente potrà esaudire il suo desiderio, ritenendosi quasi soddisfatto della propra azione, dell'incidente contro cui si sarebbe schiantato, per avere un'apertura. Le sue ultime volontà che andrebbero a realizzarsi nell'istante stesso in cui il capo potrà torcersi ancora un poco e portarsi dritto, verso l'ambita sagoma. La vedrebbe, potrebbe scorgerla, mentre quest'ultima sembrerebbe impegnata nel colpire il vetro con la propria fronte, come se fosse un'adeguata soluzione ai suoi mali. Potrebbe quasi percepire il suo dolore, la negatività in cui si sarebbe addentrato, come se fosse stato inghiottito da una creatura composta totalmente di tristezza e sentimenti negativi. Anche l'aria potrebbe risultare complesso digerire, all'interno del proprio organismo, se non fosse per quell'aria proveniente dall'esterno; forse sarà quella fonte a dargli l'energia giusta, quella minima, per portarsi avanti, ed non esser digerito da quel lato malvagio della bestia che alberga all'interno di quella struttura. Iridi che andrebbero ad accarezzare meglio contro quella sagoma, quei lineamenti totalmente avvolti dall'oscurità, quelle linee che sembrerebbero mimetizzarsi con la parete vicina. Che sia un ladro od un estraneo? No, non può credere in ciò. Potrebbe identificarla, anche senza vederla direttamente o senza sentirla. Quasi per puro istinto, può sapere che chi cerca le sarebbe dinanzi, mentre sarebbe accovacciata sul ripiano interno, vicino alla finestra. Qualche secondo in cui potrà contemplarla, ammirarla, ed il cuore potrà mancare di battere, almeno per un paio di volte. Una sincope, l'esordio di ciò. Braccia che andrebbero a distendersi lentamente verso l'esterno e le gambe farebbero egual movimento, portando l'intero busto ad adagiarsi al suolo, senza impattare nuovamente. Sembrerebbe quasi rassegnato, oramai, come se avesse accettato ora di subire le conseguenze di quell'attesa, pronto a saldare quel conto alquanto amaro fino ad ora ignorato. L'energie che verrebbero meno, quei muscoli che andrebbero a perdere ogni sorta di contrazione. Si distenderebbe lentamente sul pavimento, con il capo che sarà l'ultimo pezo ad adagiarsi: prima il mento e poi piegare la testa verso destra, avvertendo la superficie fredda contro la sua gote. Una lenta agonia, una danza che avrebbe il suo termine, con la morte del cigno. Chioma azzurra che si porrebbe quasi un cuscino per quella testa, ammorbidendo quel processo di caduta, di arresa. Ora che avrebbe terminato ciò che voleva, quale dovrebbe essere il prossimo passo? Arrendersi finalmente? Palpebre che, già leggermente chiuse a causa della stanchezza, andrebbero a completare l'opera, il processo: tenderebbero ad abbassarsi gradualmente, ora che lo sguardo visivo con l'altra sembrerebbe essersi interrotto. Un respiro, un altro pesante, prima di catturare gli ultimi dettagli dell'arredamento d'ella, in quegli ultimi fotogrammi, prima che vengano totalmente socchiusi. Delicatamente, sembrerebbe perdere ogni espressione, su quel volto, quasi come se si stesse rassenerando da quella sensazione. Non avrebbe motivo di continuare, ora? E quella voce roca, secca, non sembrerebbe suonare come desiderato, fenderebbe l'aria ma senza portare risultato: non per la sua qualità, ma per l'assenza di reazione in lui. Nessun impatto su quel corpo apparentemente esanime, come se avesse perso ogni briciolo di vitalità. Un contenitore, intenzionato a svuotarsi degli ultimi pesi, una volta che l'avrebbe salutata per un'ultima volta. D'altro canto, la fanciulla potrà, una volta avvicinatosi, notare quell'angolo della bocca lievemente ricurvo in alto: starebbe sorridendo, debolmente, come se avesse visto un angelo o, più semplicemente, la donna che ha amato e che continua ad amare, anche in quel frangente di silenzio. Esatto, un silenzio colpevole, un'assenza di suoni, mentre sarà il tocco della Genin ad esser un primo disturbo. Un disturbo per cosa, esattamente? Eccolo difatti vagabondare in quella stanza nera, color pece, ove lo spazio non avrebbe alcun comando, data l'assenza di pareti e pavimenti su cui porre le proprie orme. Sembrerebbe fluttuare in quella dimensione, mentre si distanzierebbe, metro dopo metro, dalla luce che avrebbe rilasciato dietro di sé. Un tracciato lungo, tortuoso, mentre tenterebbe di percorrerlo e distanziarsi così dalla realtà effettiva. Sarà ciò l'espiazione dei propri peccato, compiuti in vita? Eppure in quella fonte prima citata, sembrerebbe esservi ancora qualcosa: quel tocco leggero sul proprio viso farebbe tremare metaforicamente il tutto ed il Chuunin potrà sentirsi una morsa sulla zona del petto, quasi come se fosse un abbraccio invisibile, un'energia che cattura e gli imporrebbe di indietreggiare, di ritornare indietro. Una forza notevole a cui non riesce totalmente opporsi, ma sicuramente non lo asseconderebbe rendendo difficile quella forza misteriosa. Perché dovrebbe ritornare, lì? Non avrebbe già posato la penna e smesso di disegnare il suo futuro? Avrebbe un senso di appagamento sufficiente per accettare qualsiasi cosa vi sia, di quel baratro oscuro, come se volesse slegare ogni contatto che avrebbe, divenire una forma libera e distaccata, capace di sprofondare beatamente. Eppure, come se fosse vittima di una particolare calamita, non riuscirebbe ad avanzare facilmente. Ma quanto potrà essere debole questa fune, questa corda? Chi sarà questa volta a vincere, chi tira o chi spinge? Un gioco di forze, in cui subentra tutta la schacchiera della propria vita. Ricordi, emozioni, sentimenti. <Quando potrò finalmente riposare?> Si domanderebbe quell'immagine di sé, posta all'interno della propria mente, in quanto il corpo all'esterno risulterebbe totalmente immobile, con quel respiro che inizierebbe a sentirsi sempre meno. Se l'altra notasse la frequenza cardiaca, anche questa si starebbe indebolendo lentamente, ma senza scomparire del tutto. <E' questo il dirupo, tra essere e non essere?> Un ultimo fonema, notando quella linea sottile, all'orizzonte, nella direzione opposta a quel varco ancora aperto, dove avvertirebbe quell'energia attrattiva. Vorrebbe quasi stracciarsi le carni, amputare il proprio corpo, pur di sentirsi lasciato da quella presa magnetica. <Chikage, dove sei?> Chiederebbe, quasi, gridando all'interno di quella dimensione sconosciuta, buia. E la risposta non giunge, neanche un respiro oltre quel cancello: non compaiono neanche le due iridi smeraldini, lucenti e vivi. Un potere scomparso? Un'entità che avrebbe deciso di accettare in religioso silenzio tutto ciò? Sarebbe strano affidargli il ruolo di passivo, ma non lo avvertirebbe affatto. Sopito, forse, finché non troverà il giusto stimolo per esser trainato anch'esso all'esterno, oltre quella porta che separa le due identità, un cancello che impedirebbe ai due di coesistere contemporaneamente. Nessun altro fonema, ma solo adeguata forza d'egli per poter avanzare e lasciare che quella morsa abbia fine quanto prima. Si conosce chi spinge, ma sorge una curiosità: chi vi è dall'altra parte, a tirare la corda? [Chakra Off][Equip.Scheda]

16:56 Hikari:
 Inerme, totale immobilità domina le membra maschili, distese sul pavimento di legno dell’abitazione che sta attualmente inglobando i due giovani. Stanchi, deperiti, lo si può chiaramente dedurre osservandoli. Visi spenti, spogli. Aloni scuri attorno ai loro occhi, nuove creature della notte. Il contatto visivo tra i due è durato poco, ancor meno del tempo che ha impiegato la giovane prima di raggiungere il ragazzo, abbandonato a se stesso. Si sarebbe aspettata una qualche reazione eccessiva o fuori luogo, come suo solito, ma niente. Niente di niente. C’è qualcosa che non va in lui, come in lei. La sua esuberanza, il suo attaccamento quasi morboso alla Yoton, deducibile da una semplice occhiata a quelle iridi ambrate, sono scomparsi. La mano di lei non termina la propria corsa nonostante la mancanza di gesti da parte del Goryo. Raggiunge quel viso chiaro, una porcellana oscura allo stesso tempo, immobile, statuaria. Il riposo di chi finalmente è tranquillo, di chi ha compiuto l’ultima missione assegnatagli. Il dorso della mano raggiungerebbe la guancia sinistra del ragazzo, la sfiorerebbe con estrema lentezza, quasi avesse paura che un minimo movimento brusco possa mandare in pezzi quel viso debole, stanco. Il silenzio regna, avvolge i due giovani con le sue braccia e lascia loro tutto lo spazio necessario. L’aria pesante abbandona il luogo, sgusciando via attraverso il varco creato dall’impatto del Chuunin contro la porta. Tutto pare più leggero ora. Eppure, nonostante lo sforzo attuato dal ragazzo, il suo respiro è talmente debole da essere quasi inesistente, flebile e sottile con un filo. Silenzio, troppo silenzio pensa Hikari. Chinerebbe dunque il capo, quanto basta affinché l’orecchio raggiunga una distanza sufficiente dalle labbra altrui. Qui sentirebbe l’aria abbandonare le narici maschili con estrema lentezza, una calma piatta. Poi viaggerebbe ancora il capo, più in basso, in direzione del petto. Qui si poserebbe, sulla parte sinistra, alla ricerca di quel battito che ha avuto già modo di ascoltare. L’ultima volta era martellante, doloroso persino per lei. Si era dichiarato, lui, e quel battito sordo, compulsivo, era la dimostrazione che sia Koichi che Chikage stavano soffrendo a causa di quel sentimento nuovo ai due. Ora invece, nessun martello, nessun dolore. Tum, tum, tum. Troppo lontani questi battiti. Sembrano una ninna nanna. < Sono contenta che tu sia qui. > sussurrerebbe a quell’animo che pare voler abbandonare il corpo del Chuunin, a Koichi, a Chikage. Sono lì adesso, assieme a lei, nonostante non abbia voluto vederli prima, durante il periodo che le era stato concesso. Vorrebbe assecondare quello stato semi-vegetativo anche lei, trovando così finalmente una pace. Socchiuderebbe gli occhi, scrutando dal basso quel viso che diversi giorni prima era ben più vicino al proprio. Un sorriso nascosto dalla stanchezza lo decora come la più bella opera d’arte. La tragica bellezza di chi sta per andarsene. Allungherebbe la mancina verso quel sorriso, quasi a volerlo raccogliere prima che scompaia. Vuola raggiungerlo e tenerlo stretto a sé, quel sorriso. Labbra femminili che imitano quel gesto. Le punte delle dita lo raggiungono, sfiorando quella scultura immobile che è parte del Goryo. < E’ mio questo sorriso. > debole anch’essa, effimera. Chissà se l’altro sarà riuscito a sentirla. Un debole vento attraverso l’uscio della porta, scivolando sulla schiena della Yoton, sorpassandola e raggiungendo il volto maschile. Un soffio di vita, forse? E’ davvero questo il modo in cui si dovrebbe abbandonare questa esistenza? Rimani, pensa. Donami quel sorriso. Una bolla di attimi avvolge i due, facendoli fluttuare nel vuoto e nella sospensione dell’attesa. Cosa ci sarà, ora?