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con Ekazu, Ren

21:50 Ren:
  [Casa di Ekazu] Dal sacchettino appannato una nota di carne alla griglia s'arrampica per il cunicolo sotterraneo. Palleggia, da ombra ad ombra - dove il primo fruscio di vestito e passi è anche l'ultimo, nonchè il suo. A dire il vero non se li ricordava nemmeno più questi posti, come se la memoria volesse giocarle il tiro mancino di tempi troppo andati per risultare vividi. Però il freddo. L'astio. Lo sguardo torvo dei passanti, il riflesso meno colorito del suo. Oh, tutto questo se lo ricorda benissimo. Quanto tempo sarà passato? Forse poco più di due mesi, da quell'incontro. E in tutto questo tempo nel villaggio delle serpi, non ha fatto altro che evitare le zone in cui sarebbe stato di ronda, o si sarebbe probabilmente trovato a gironzolare. Se l'è promesso. E le promesse sono maledette quando vanno contro alla razionalità ed alla logica. Le palpebre di bronzo calate per metà lasciano allungarsi l'ombra del sipario sugli occhi di ghiaccio, sembra risalire la schiena di qualche chiazza animata ed intenta a muoversi per portar a termine l'ultimo lavoro della giornata. E allora, perchè gettarsi nelle fauci della bestia se fondamentalmente, stai scappando? I passi falsi esistono, certo. Ed anche i passi che sei obbligato a fare - pure con la gola chiusa e la bocca viola. Il muoversi flemmatico nella cappa bianca e nera della Yugure, il muoversi delle suole sul terreno, appena prima di quello spiazzo. Un cenno con la testa, cortese e posato, quello rivolto agli uomini indaffarati proprio lì davanti. Sarà qui? Muoversi nelle vie sotterranee è impossibile per chi si ricorda poco e niente - eppure, sembra avercela fatta. E sembra anche non voler proseguire oltre il corridoio. Il ciondolìo della carne alla brace d'asporto, nel suo sacchetto un po' troppo appannato, lascia uscire un odorino invitante. Abbastanza da far girare gli uomini al lavoro nello spiazzale povero di ornamenti, di altre porte o qualsiasi altra cosa. Stanca. Così stanca da perdere il sangue nelle labbra che son colorate solamente da un livido purpureo, nell'angolo inferiore. E' un taglietto. Uno spacco color borgogna che le sfuma il muso distruggendo in parte, quella che qualcuno chiamarebbe bellezza. Come un po' di tinta scura colata su un quadro dell'epoca rinascimentale. Totalmente disturbato e fuori luogo. I capelli sono cresciuti dall'ultima volta in cui si sono visti, e forse - anche lei sembra un po' più donna, ed un po' meno bambina. La guerra? Oh, non puoi passare tra rivolta, sangue e distruzione ed uscirne illesa. Eppure è sempre quella ragazzina. Con gli occhietti privi di scintilla. Quel soldatino, ora a capo di se' stesso. Il cheongsam nero e lungo le sfiora le caviglie, lascia danzare uno spacco timido ad altezza della coscia - dove delle azalee ricamate a mano sembrano arrampicarsi fino al colletto, rendendolo un piacevole arazzo. Rosso, nero, bianco. Capelli intrecciati da metà testa in due treccie che le cadono spesse lungo il collo, che le sfiorano la giugulare e la carotide - finendo per cadere nel vuoto sotto il petto. <...> Ha tentennato, sì. E' rimasta ferma all'imbocco dello spiazzale, come se avesse l'alternativa di tornare indietro e trovar un altra via. Una più facile. Buttare la carne di cortesia e gli auguri per la casa nuova, per la nuova vita, per il ritorno dove lui appartiene di diritto. Sicuramente più di lei. Rotta a metà dal tremore e lasciato morire in un pugno troppo forte contro la porta di casa di Ekazu. Uno di quelli dati sovrappensiero. Vattene, scema. < Ekazu. > ... < Sono io. > Ren? [ck on]

22:25 Ekazu:
  [Casa di Ekazu] Rinchiuso, da solo. Stanze vuote, un arredamento inesistente e quei pochi affetti ancora rinchiusi negli scatoloni, messi li, accatastati in un angolo. Le pareti spoglie lo circondano, e se solo potessero parlare. Secchi di vernice ai piedi delle pareti. Qualche foglio a terra, parte di quei cartoni non utilizzati a coprire quello che sembrerebbero essere travi di legno, parquet. Ancora è tutto di un bianco asettico. Il soffitto, a circa 6 metri da terra, è ben più alto del normale. Un pennello in mano. Il visino, pallido di suo, è macchiato qui e li di sbuffetti di vernice scura. Le dita della destra quasi hanno paura di cingere il legno del manico. Un altro pezzo di muro tinteggiato, poi si abbassa. Affonda le setole dorate nella vernice nera, lo sguardo spento e assente si solleva lento, seguito dal pannello che intanto gocciola a terra. Non ci fa caso. Le iridi bicrome si muovono lente a cercar di compiere un lavoro quantomeno sistemato. Ed un altro pezzo, dal bianco diventa nero. E fa questo per ore, nella più totale solitudine. Il solo rumore dei pensieri ad abbracciarlo, e forse ogni tanto, insistenti e per nulla discreti, gli operai a chiedergli forse qualche attimo di ristoro. Un appoggio per mangiare, qualcosa del genere. Ma il braccio intanto sembra muoversi da solo. Di inerzia, oramai. Il corpo cerca di negargli quei pensieri che però inevitabilmente si fanno sempre più vivi. Dove cazzo sono finiti tutti, ma soprattutto. Dove sono loro? I ricordi di lui che bisticciava contro un Hanabi gelosa di Lei. Le notti passate al Tanzaku, in quel piccolo angolo di paradiso. Le cenette povere, fredde, riscaldate da un Ekazu impacciato. Tutti quei momenti; come ci è finito 40 metri sottoterra? La testolina si scuote, a cercar di mandar via ogni pensiero. Ma niente, si arrende. Quell’ultimo sprazzo di voglia finisce al morir a terra del pesante pennello. Un tonfo sordo, legno contro legno. Prima la destra poi la sinistra a strofinarsi sulla maglietta bianca. I pantaloni cargo neri risultano quasi intonsi, immacolati. AI piedi, nulla. Le scarpe sono lì, appena dietro la porta. E da una delle tante tasche, un pacchetto di sigarette ammaccato, seguito da un accendino. Un tic metallico. Il fischio del respiro e lo sbuffo del fumo. Non si fuma dentro casa. Giusto il tempo di qualche tiro, sembra lasciar questo mondo. Le palpebre iniziano a nasconder la luce dell’eterocromia. I suoni ovattati lo raggiungono a malapena, quando all’improvviso il bussare contro la pesante porta d’acciaio, color del titanio. Il fumo sbuffato dal nasino, la sigaretta portata alla bocca per un ultimo tiro prima di farla morire schiacciata in un posacenere di fortuna. Un rivolo di biancastro a salir lento verso il soffitto. < che altro volete adesso.. > non sono gli operai, tranquillo. La mano afferra la maniglia nera, ghiacciata. < mi avete già intas- > tira a se la porta. I muscoli del busto che si tendono, la massiccia porta è difficile da spostare. Poco a poco, il corridoio fuori casa si vede sempre più. Lo sguardo dal basso, capisce che evidentemente non sono loro. Il cuore accelera, va a tremila. Letteralmente, l’uscio aperto a metà lo gela. I capelli lunghi di lei. Quegli occhi. Le labbra neanche si chiudono. Quel viso illuminato dalle luci improvvisate degli operai. Il trapanare, il martellare di sottofondo. Ora che non vi è più la porta ad isolarlo, tutto riesce a sentire. Eppure, nulla. Lei è lì. Perché, non può mandarla via. Deve farla entrare? Non lo sa. Non dice nulla. [ Chakra: ON ]

22:44 Ren:
  [Casa] Il vento che spiffera dai condotti d'aria, lo stesso vento che infesta il suono. Una, due ciocche come corallo a fiorarle il viso, oltre la linea delle tempie. Cadono con la punta leggermente arricciata in avanti, contro la mascella che si contrae. Ha il pugnetto ancora in aria, quello vuoto di qualsiasi impiccio - e l'haori sulle spalle sembra minacciare di cadere a terra; minacce vuote che non s'avverano mai, tenendosi invece saldamente alle spalle. E stringe, stringe - forse non è in casa. O forse dovrebbe smettere di ficcarsi le unghie nel palmo della mano? Filtra l'aria dallo spazietto tra gli incisivi e le falangi decorate da un filo di smalto rosso trovano un po' di pace nell'allentare la presa, fino a quasi lasciarla andare del tutto. La verità è che le manca il fiato, eppure il suo viso non dice niente. Niente che possa lasciare intendere qualsiasi sfumatura che non sia la pura e semplice cortesia di una visita. Si. Come se fosse credibile - soprattutto per una persona come la Seimei, che al caso non ha mai lasciato niente. Già, dove sono finiti? Lui quí, lei ha abbandonato la sua pelle sull'uscio di Keimusho dicendo: È finita. Abbiamo chiuso. È finita anche per lei - a dirla tutta. Snaturata per vestire il bianco, il nero - ed una maschera di porcellana che non s'è mai tolta, se non in quattro pareti di un buco occasionale. Il collo perennemente in tensione, i capelli come fiammelle che le carezzano pelle di latte leggermente arrossata tra le lentiggini di caffè. Il cigolio della porta le fa' alzare gli occhi, immobile - lo guarda. Che fa'? Forse è inopportuna? Forse dovrebbe girare i tacchi. Forse dovrebbe fare finta di niente. < Posso entrare. > retorica e lavativa. Forse si sente a disagio quanto basta per provare a spingere con il palmo la porta, come se non avesse tempo. Come se avesse fretta. Si, ma di andare dove, povera stupida? In una bettola di venti metri quadri che abbandonerai a brevissimo? Tenterebbe. Aprire. Entrare. Guardare il disastro combinato da Ekazu - e il cuore spoglio di una casa. Abitava qui prima? Le ciglia s'abbassano, folte quel tanto che basta a gettare ombra sulle gote. < La cena. Per la casa nuova. > un regalo di circostanze. O forse assicurarsi che lui abbia mangiato? Lo porge verso di lui, lasciando ciondolare il sacchetto avanti ed indietro. Manzo e maiale alla griglia. Di uno di quei chioschetti in periferia. La voce è un sussurro impiastricciato tra le labbra di miele, appena gonfie - appena livide da quello spacchetti che si ritrova. Che bello tornare a casa, mhn? Un regalo del padre dopo averla rivista. < Ho bisogno di parlarti. > [ck on]

23:17 Ekazu:
  [Casa di Ekazu] E rimane li, con il freddo del manico stretto nella mano. Non si muove, non riesce. Per qualche istante, la vista quasi manca, cede. Il collo, come il suo è teso. Ogni muscolo pare irrigidirsi, le spalle vogliono chiudersi e nascondere il visino al mondo. Non vuole farsi vedere. Non vuole vedere lei, non vuole ancor di più farsi del male. Non lo meritano. Ed ironico parlare così se consideriamo la loro natura così condannata dall’intero mondo Ninja. E forse solo lì, sotto terra, d’innanzi a lei, può mettere da parte tutto quello. E’ semplicemente Ekazu, insieme alla donna che ama(va). Un passettino all’indietro, a farsi da parte. La lascia entrare, il visino appena si abbassa quando il profumo di lei lo investe in pieno. Gli occhietti nascosti dal crine nero seguono i suoi movimenti. Vorrebbe saltarle addosso, afferrarla per le guance e dedicarle ogni singolo secondo, per poi magari tornare a decorare la loro nuova casa? Chissà cosa pensa lei di quei mobil- No, niente di tutto questo. Non esiste più nulla. Le labbra improvvisamente secche si schiudono < .. grazie > borbotta ancora con la testolina abbassata, mentre oramai la porta si chiude in un tonfo pesante dietro di lui. < poggia pure .. > qualche passo verso di lei, le braccia che vorrebbero veramente indicare un qualche tipo di appoggio per il cibo, ma non c’è nulla. < .. a terra > con lo sguardo ancora basso andrebbe a cercar proprio quel fagottino con la carte, non la scomoda, tenterebbe di afferrarlo, sfilarglielo delicatamente tra le mani. Entrambe le mani a cingerlo, lo sguardo che solo ora si alzerebbe di qualche grado appena a cercar forse una qualche superficie morbida. Cuscini, vestiti ammassati. Ma nulla. < .. vuoi sederti > domanda, seppur la voce non si inflessa nell’interrogativo. Proprio al centro della stanza, si siede. Lento, compassato. Le gambe incrociate, il sacchettino poggiato a terra che con la punta delle dita verrebbe scartato e posato tra i due. < dimmi- > e la lascerebbe parlare. Ma quel cuore che gli sbatte in petto, l’idea di star anche solo condividendo nuovamente con lei il cibo, anche se non dovesse accettare, è comunque lì. Vuole parlargli. Anche lui, lo stesso. Appena aprirebbe nuovamente bocca la Seimei, la interromperebbe. Non la lascerebbe parlare. < come stai Ren > le dita che scartano la cena tremano tese, ansiose. Chiazze rossastre, forse di imbarazzo, iniziano piano piano a risalire lungo il collo. Ancora gli occhi non si incrociano direttamente, fissi per paura sulla carne tra loro. [ Chakra: ON ]

23:43 Ren:
  [Casa] Di cosa hai paura, esattamente? Cosa ti manca, esattamente? Qualcosa a cui hai scelto di rinunciare. E forse il terrore che c'è dietro è proporzionale alla consapevolezza di non esser abbastanza forte per rinunciare davvero. Ma quanto coraggio ci vuole per mandare tutto all'aria? Beto, il Noctis, i progetti che si nascondono dietro al viso bianco di una ragazzina, fondamentalmente. Siamo dannati i kami, per quanto fegato ci sia voluto a venire quí - per quanto acido abbia dovuto ingoiare prima di rivolgergli la parola, con la sua maledetta voce apatica. Cardiopalma piatto? Affatto. Ogni volta che le plumbee si posano su di lui, sulle macchie nere addosso - vorrebbe morire, piuttosto che vedere che effettivamente è tutto okay. Anche senza Loro, è tutto okay. Le labbra hanno un piccolo sfiato, scostando gli occhi dal suo viso, alla sua maglietta - a quelle pareti. E il soffitto così alto. Il pavimento in legno. Accanto alla porta, come da tradizione, lascia i classici sandali in legno nipponici - evitando di calpestare il pavimento. Se non fosse che è già tutto sporco di vernice. L'esalarsi di un sospiro senza rumore, taurino - mentre si muove piano. Lascia andare a lui quell'offerta, e si scopre a ravanare nel silenzio dei suoi inviti il nulla cosmico a rendere quella casa effettivamente, una casa. Niente letto. Niente divano. Niente tavolo. Pensate davvero che le importi qualcosa di tutto questo? L'ha persino sfiorato, per un attimo - cedendo il regalo. Il sacchettino e la condensa classica del take away; quando lo apre l'odore di brace e pane caldo riempie la stanza in tempo zero. <Ti aiuto, l'ha stretto un po'...> Si distrae, è meglio - perde la testa in un nodo troppo stretto, concentrandosi con tutta se stessa nello scioglierlo. Unghie. Tira. Niente, il dannato nodo non si scioglie. < aveva paura lo mangiassimo?! > Un brontolio bassissimo, impercettibile, tenuto quasi nella bocca. Una cosa tra lei e il chioscoman maledetto. Ha messo pure più sacchetti, perché la premura di Ren che arrivasse caldo fu' tanta da mandarlo in esasperazione. Al centro perfetto della stanza, dove un tavolo è irrisorio se pensiamo che stanno di nuovo cenando assieme. Le cosce si abbassano contro il pavimento; lasciata cadere su un fianco ed un gluteo, con le gambe piegate di lato. L'haori bianco della Yugure reso un fagotto su cui sedere, accartocciato tra le braccia. Le trecce che ciondolano, gettate da uno sfilare del polso verso il retro della spalla. Una. E l'altra. Evita di guardarlo, sempre. Evita anche di toccarlo. Di finire per litigare con il sacchetto e farsi venire una crisi di nervi per niente. Le dita si tengono smorte - come se toccasse il vuoto. Le labbra che si schiudono per parlare davvero, questa volta; deve dire qualcosa, ma com'è che esce solamente aria? Le iridi si sollevano, lame artiche - finiscono per puntellarsi sulle bacchette usa e getta di lato. Le prende, le separa - gliele porge, come se volesse invitarlo a mangiare per primo. Lei? Oh, lei continuerà a spostare di qui e di lì gli straccetti di manzo e mandorle tostate. < Si - della luna ross-- > La luna rossa. Il motivo per cui ha smesso di scappare da te, neanche fossi il peggior nemico. Nemmeno fossi il peggiore degli anbu con la taglia sulla testa di Beto in mano. Rimane lì, però- morta a metà frase e stoppata da quella domanda. E allora si trova ad arrampicarsi sugli specchi bagnati. Spiazzata. La montatura tonda d'occhiali sul setto ha un fremito verso il basso, dove le lentiggini son immerse in un mare di fragola. <...> Come sto? Come? Male, finché sarò qui. < Bene. Ho un sacco di progetti. Sono sempre occupata. Sto aspettando la riunione, ma partirò molto presto. > Eccola, con la punta delle bacchette. Gira. Rigira. Gira. Il manzo che cremoso, si mischia con il sugo e cola ancora, dalla sua vaschetta. Parla di frasi vuote. Bene, sto benissimo, mi vedi? Gli occhi bassi, pizzicano - e la punta del naso le fa uno strano effetto, tra le efelidi, appena arrossata. < Tu? > ... < Sei contento? Sei a casa. > [chk on]