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con Chie, Haran

19:30 Haran:
 Il tramonto si staglia sul fiume sottostante con i suoi raggi infuocati. Il cielo è libero, sgombro di qualsiasi tipo di nube, e la sfera infuocata si affaccia all'orizzonte sulle acque di quel canale di cui Akira ignora il nome. Lingue dorate e brucianti che brillano su questa distesa altresì azzurrina mentre sfumature viola e rosa tingono un cielo crepuscolare. La clone osserva questo meraviglioso spettacolo affacciandosi dal ponte Tenchi, il collegamento che unisce Kusa e Iwa in circa venti metri di assi di legno solide e resistenti. Un ponte antico, stabile, solido, che si eleva per alcuni metri al di sopra di un fiume non particolarmente grande. E' la prima volta che la Uchiha si ritrova per queste strade, è la prima volta che vede questo ponte e ne è rimasta colpita. Sembra un luogo silenzioso, pacifico, l'ideale per lei ed il suo animo confuso. Ha deciso di rimanere sola, ha deciso di non fidarsi di nessuno, di impedirsi di affezionarsi alle persone per preservarsi dal dolore provato in quei pochi mesi di vita. Non vuole replicare quanto già vissuto prima con Katsumi, poi con Kimi, poi con Hitachi. Non vuole mai più sentire il senso di vuoto ed abbandono che resta quando una persona a cui si è donato affetto sparisce senza neppure una parola. Preferisce rinchiudersi in se stessa, isolarsi, sfuggendo alla possibilità di provare quel dolore ed al contempo la gioia di un nuovo legame. Forse la sua scelta deluderà Kioshi, forse lui non sarà concorde con lei, ma non importa. Dopotutto una volta scoperta la verità sulla notte dell'attacco ad Arima non l'avrebbe abbandonata anche lui? Sì, sicuramente sarà così. Ispira a fondo, silenziosamente, con le braccia a poggiare pigramente sui parapetti in legno del ponte. Osserva la discesa infuocata del sole mentre un alito di brezza fresca scuote la sua chioma corvina, carezza la sua pelle nivea. I lunghi capelli neri, che arrivano circa fino all'altezza dei fianchi ormai, ondeggiano come fili d'ombra alle sue spalle assieme al tessuto del suo abito. Un kimono nero, leggero, richiuso morbidamente sul petto dalla presenza di un obi scarlatto che le fascia la vita. Esso si richiude sulla schiena in un grande e morbido fiocco mentre il kimono prosegue sulle cosce con una gonnella leggera, sottile, con decorazioni floreali cremisi che risalgono dai bordi verso l'alto, elegantemente, nello stesso modo in cui ci si arrampicano sulle maniche ampie e spaziose. Le ginocchia, le gambe, scivolano nude sotto la veste terminando in un paio di bassi stivaletti ninja senza tacco. Nessuna arma con lei, nessuno strumento se non il coprifronte di Otogakure donatole da Katsumi legato attorno al collo. Lo porta ancora con sé nonostante cerchi a tutti i costi di eliminare ogni rapporto con lui. In fondo, forse, nel profondo desidera ancora ritrovarlo...

19:49 Chie:
  [mezzo ponte] La primavera ha un effetto assurdamente lenitivo; appare come l'aver tutte le lettere esatte per poter esprimere se stessi al meglio. Poi la verità si cela sotto strati di insonnia color rosso annacquato. Nello sguardo cianotico che si perde, asfissia ed imbottiglia nell'essere caotico chiuso nel pugno del villaggio dell'Erba. Hai presente la sensazione di uscire di casa dopo un tempo infinito passato sempre nella stessa identica topaia che, ad un certo punto, assorbe l'odore stantìo ed acre del sudore dato dai tuoi incubi? Il primo passo sul ponte lo cristallizza. Fogli bianchi su cui qualcuno deve aver fatto egoisticamente uno scarabocchio insignificante e poi- ha avuto tutta l'intenzione di accartocciarselo nel palmo e sbatterlo di parte, in un cestino chiamato 'terre ninja'. È cresciuto, per quel che ne vale veder un corpo issarsi mentre marcisce altrove; il fattore più pericoloso consiste nel suo essere tendenzialmente piatto. Come spiegare qualcosa che é solo- solamente, ecco 'piatta'? Muore, sanguina, soffoca. Sempre con lo stesso, identico, sguardo disinteressato. Capelli d'argento disegnano onde caotiche, dove le leggi della fisica si scontrano con quel che è stato scritto e testato per renderlo così tremendamente disordinato -come del resto ci immagineremmo un uomo che vive da solo, abbandonato a se stesso-. Niente maschera sul viso, niente copertura sulla bocca dove delle squame roseo-rossastre sfregiano una bellezza coriacea tipica nipponica. L'accenno di barba di una settimana fa. Zigomi alti. Mento spigoloso. Spalle larghe in una figura nerboruta- non certo un energumeno. Ogni nuovo passo è il tonfo degli anfibi neri contro le travi lignee del ponte, come se avesse la pesantezza di uno tsunami di Kiri e il tetro silenzio di chi vive per uccidere. Di chi é stato messo qui, per fare solamente il suo lavoro e sentirsi pienamente le mani pulite. Serra le labbra ciondolando un borsone sulla spalla sinistra formando un angolo schiacciato con il braccio- mentre la destra solleva un foglietto con il disegno dell'Okiya del Crepuscolo. Soffi d'oro fuso nascosto dietro lo sguardo serafico- l'ennesimo passo che lo fa fermate. Scricchiolare come un vecchio carretto di un viandante. L'unica parte visibile del vestiario rimane l'haori, grigio chiaro come il resto della sua figura insipida e pietosa, con alamari che inseguono il colletto alto fino ad oltre le ginocchia. Nero, bianco sporco. Ed una salamandra, ecco. Una salamandra gli si arrampica sulle spalle facendo il velenoso preludio al coprifronte di Otogakure no Sato legato al contrario, lateralmente -zabusa docet-. A suon di note e passi. Di fruscii senza suono e senza voce, apre gli occhi sull'arrestarsi di tutti quei movimenti. Quando tutto s'è spento, esattamente? Il viso con l'impronta più atroce dei Genetisti che si sofferma davanti all'Uchiha e l'osserva. Spento abbastanza da apparire una marionetta mal formata. Le squame si schiudono ad emettere un verso, il classico verso muto di chi vorrebbe un informazione. "Hn." Le mostra la pergamena contenente l'Okiya della Geisha Bianca. [ck on][hijutsu passiva]

20:16 Haran:
 Il crepuscolo, quella parte della giornata che la gente ci tiene tanto ad inserire fra mattina e sera, come l'alba vien immessa fra notte e giorno. Una parte così piccola, così breve, da durare solamente pochi istanti. Il tempo di una chiacchierata veloce, di pochi minuti privi di reale importanza. Eppure una parte mai effimera, mai astratta. Ogni tramonto, ogni crepuscolo, lascia sempre una traccia nella memoria di qualcuno. Lascia sempre un segno o forse un sogno. Akira quest'oggi ammira da sola questo panorama rincorrendo pensieri sfuggevoli. Troppe riflessioni, troppe sensazioni, troppi pensieri che s'avviluppano e intersecano e confondono in una mente estremamente volubile e fresca, fin troppo malleabile. La confondono, la travolgono, portandola semplicemente a ricercar infine silenzio. Tenta di ammutolire, scacciare e distanziare da sé tutto quell'ammasso caotico di informazioni per rimanere in un silenzio totale ed assoluto, interrotto solo di tanto in tanto dallo sciabordio del fiume sottostante e il soffiare canoro di una brezza di inizi estate. Ed è un istante di distrazione quello che serve affinché Akira si perda l'esatto istante in cui il sole svanisce e quell'incendio di colori s'anneghi all'orizzonte perdendosi dietro il fiume, lasciando calare sulla sua testa quel manto oscuro trapunto di fulgide stelle. Sbatte le palpebre distrattamente, si lascia sfuggire un muto sospiro stanco mentre la mancina andrebbe a scivolare dal parapetto fin lungo il fianco, come morta. Un nuovo soffio di brezza, una nuova carezza del vento, e poi ecco che un nuovo suono giunge al di lei udito. Un verso, un qualcosa di decisamente umano ma di sommesso. Un suono che la porta a ruotar lieve il capo in tale direzione incontrando così la figura d'un uomo mai veduto prima, alto, dinoccolato, dal crine bianco come la neve e le labbra... scagliose. Qualcosa di nuovo, di mai visto prima che la porta a schiuder di riflesso le proprie, sorpresa. Stranita. L'osserva puntando su lui le iridi bicromatiche -scarlatta la sinistra, bianca la destra-, notando in un secondo momento soltanto la pergamena che le vien posta. Scruta i tratti disegnati su di essa aggrottando distrattamente le sopracciglia, confusa, non capendo bene se quello sia un dono o chissà cosa. <Uh> un verso muto, basso, a sfuggir dalle sue labbra mentre lo sguardo si rialza a cercar le iridi altrui. <Devi andare qui?> domanderebbe, confusa, chiedendo chiarimenti al gesto altrui. Non ha mai visto quel posto, non sa dove sia, né c o s a sia, ma le par d'aver veduto simili costruzioni sulla via per il Tanzaku Gai tempo addietro, durante una missione affrontata al fianco di Hitachi qualche tempo prima...

20:48 Chie:
 Il calar del sole gli si incastra tra i capelli, riflessi rossastri che decorano tratti e sguardi nascosti rivolti in direzione di Akira. È questione di un attimo, quello in cui torce appena il collo oltre il bordo del ponte guardandosi attorno dando sfoggio dello sbocciare di piccole, larghe, sbiadite, sfumate- purpuree contusioni. È come se si grattasse freneticamente la nuca. O come se qualcuno cercasse costantemente di asfissiarlo. È okay con questo. Conosce 'Il Padre' e sa che così è giusto. Che così, è quantomeno, arrivati a questo punto- normale. "a-nh" L'ennesimo verso d'assenso verso l'altra in un vibrare rauco di corde vocali. Il fruscio stabile del fiume che scorre sotto il ponte lo distrae- un elemento di disturbo che non gli si colora in faccia ma che continua a pungolargli l'attenzione. Collo nervoso, si ammorbidisce creando solchi e gonfiori tornando a guardare verso di lei. Con più precisione la nota sulla piastrina di ferro che porta con tanta sfacciataggine anche lui. Gli occhi puntati sull'espressione sorpresa innescano il ricurvarsi delle labbra verso il basso; innato, un cenno di sdegno verso una reazione assolutamente umana da parte della ragazza- quanto della gente che un tempo lo mise all'angolo additandolo come un mostro. Ma non lo copre più, quell'orrore. Solo in missione. Stropicciarsi di carta che batte una ritirata verso la tasca dell'haori grigio pallido che veste, finendo con l'abbandonarlo lì dentro saltellando da un polo all'altro della figura. Gli occhi. La bocca. I capelli. I vestiti. Disinteresse ben poco superficiale sputato via da una figura affusolata. C'è una canzone che dice esattamente: Un perdente si nasconde dietro la maschera dei miei disturbi; e chi sono oggi, è peggio di quel che ero prima. Ed è esattamente così, Akuma. Dall'allontanamento di Kaori. Di Konoha. Dalla fine della guerra. Schiude le labbra- ma non esce neanche un suono. La destra si indica il petto- indica il villaggio. Una serie di pacche e gesti che vorrebbero dire qualcosa, se solo Akira capisse il significato dei segni. Ma per ora- sembrano solo pazzie sotto forma di rumori e dita che si mettono in posizioni arcane. E la stessa medesima espressione scivola nella rassegnazione- in frammenti che lasciano intendere "Lascia perdere". E dopo un attimo di panico da comunicazioni interpersonali- si accosta a lei. Allunga le dita ad indicare il suo coprifronte, ad inneggiare la nota che porta. Un verso rauco abbassandosi, come un salice, ad appoggiare il borsone a terra. Abbandonarlo accanto alle leve per scandire: "Po- ssss~to" .. "Dor-mh. Ir-e" tentenna, insicuro, a labbra socchiuse sibila fuori dalle scaglie sulle labbra come orpelli di ceramica colorata. [ck on]

21:04 Haran:
 C'è qualcosa di strano nella figura di quest'uomo che porta Akira a sentirsi d'un tratto come instupidita. Non si tratta delle labbra ricoperte di scaglie rossastre, non si tratta dell'espressione vacua e vuota, né del pallore così accentuato della pelle quasi grigia. Ma è quel suo modo di muover le mani che confonde enormemente la genin facendola sentire d'un tratto immensamente stupida. Non capisce cosa lui stia cercando di dire o dimostrare con quel fare, né perchè abbia rinfoderato il foglio dopo averglielo mostrato. Non che in ogni caso avesse idea di che luogo fosse, ma non ha avuto neppure il tempo di dirgli che non sa che posto sia. Le iridi bicromatiche della ragazza si soffermano curiose, instancabili, sulla figura slanciata di lui sui gesti che pare voler mostrare. Si indica, indica il Villaggio e poi ripropone una serie di movimenti delle mani che portano la clone a sbattere le ciglia con fare sperduto. <Devi... andare al Villaggio?> azzarda aggrottando le sopracciglia, la voce morbida, delicata, tentennante di chi è assolutamente incerto di quanto sta dicendo. <O.. vieni dal Villaggio? Devi andare nel posto del foglio?> continua a tentare di capire fino a quando lo stesso ragazzo non lascia cadere la discussione con rassegnazione. Akira è perplessa, confusa, con la mancina a poggiar sul parapetto del ponte ed il resto del corpo volto in direzione dell'albino, osservandolo con espressione ferma, distante, sfumata d'una curiosità infantile. Lo vede dunque avvicinarsi, muovere qualche passo e poi indicare il coprifronte che ha indosso, lo stesso che ha anche lei. <Oh> esclama lei, allora, portando d'istinto una mano verso la placca metallica che ha sistemata alla gola, l'incisione di quella nota che scivola sotto i polpastrelli candidi. <Io non vengo da Oto. Cioè... non ci sono mai stata. Sono solo nata lì... credo> specifica d'istinto distogliendo da lui lo sguardo, portandolo sul fiume oltre il parapetto, con una sfumatura malinconica nella voce. Non ha mai visto Oto se non nell'illusione in cui Shisui temprava la sua mente. Non sa che posto sia, quanto sia distante, sa solo che è lì che dovrebbe esser nata. Porta quel coprifronte solo perchè è il dono che Katsumi le ha fatto una volta restituita alla sua vita. Un dono che ora trova amaro e doloroso. Sente il tonfo sordo del borsone che viene poggiato a terra, osserva il modo in cui egli si china al suolo e poi quelle parole sibilate fuori, difficilmente, tentennante, portandola a sgranare appena lo sguardo, fissandolo. Sbatte le ciglia rapidamente, incerta, guardandosi poi attorno, vedendo da un lato all'altro di sé solo il ponte che continua in una direzione e nell'altra, la vegetazione a circondare ambo le sue estremità, con il Villaggio in lontananza e la notte che avanza. <Dormire?> chiede lei tornando a porre sull'albino il proprio sguardo, la voce insicura, timida, mentre sfarfalla le ciglia folte. <Q-qui?> sottolinea come se fosse ovvia l'assurdità della cosa. <Se ti serve un posto per dormire posso accompagnarti al Villaggio, non è lontano> tenta di aiutarlo lei chinandosi, andando a flettere le gambe così da porre sulle mezze punte dei piedi il proprio peso, le ginocchia a puntare dinnanzi a sé, le cosce parallele al terreno ed il sedere a sfiorar quasi i talloni sollevati. Le mani verrebbero poste sulle ginocchia, lo sguardo rimarrebbe fisso sulla figura di lui. <Come ti chiami?>

21:24 Chie:
 Fosse stato più migio il fato con lui, avrebbe almeno una voce per esprimersi, avrebbe atteggiamenti che lo mostrerebbero interessante a qualche figura normale. Invece non è altro che questo: Una bestia fedele. Il tempo e i ricordi son il collare a strozzo a metà della gola che preme- oh se preme. Non lo lasciano andare e lui- di tutt'altro campo, non abbozza nemmeno a volersene liberare in qualche assurdo modo. Una ciocca bianca lascia la coda bassa, trattenuta da un laccetto verde pino scivolandogli lungo il viso adornato da quel pizzetto grigio-argentato e morendo a mezz'aria, sospesa nel vuoto. Non si fa sfoggio del desiderio di volerla far sentire sciocca- ma tutto, in un certo qual modo, si riveste della frustrazione colorata sul suo volto. Le ginocchia flesse verso l'esterno mostrano oltre l'haori lungo un paio di pantaloni da shinobi dello stesso identico colore della parte superiore, la parte bassa appena più stretta di quella superiore dalla quale pende una corda dal diametro grezzo di dieci, tredici centimetri. Penzola, s'attorciglia a terra come un figlio di Manda, fino a vederlo poggiare i gomiti sulle ginocchia e lasciar cadere gli avambracci in balia dal vuoto. Non cambia di una virgola. Non un sospiro. Non una parola. Non uno sguardo in direzione di Akira che- come un fiore rampicante, sembra cercare la luce nella valle delle tenebre. Non certo con Akuma- no, con se stessa. Con i suoi sospiri. Il suo malumore. I suoi ricordi. Trovar un posto dentro Kusa dove poter morire un paio d'ore a notte è un impresa più che continuare a vivere al Tanzaku Gai e campare con quel che guadagna dall'esser oramai un Anbu più che navigato. "Shh." Questo esce limpido. Acqua fresca dalle labbra che gracchiano parole baritone accatastate come le macerie della fine dell'universo. La destra sollevata, tenterebbe di appoggiarsi con il palmo ad altezza della fontanella di Akira. Un gesto dolce- impacciato come chi ha paura di romper qualcosa spingendo troppo forte, ed altrettanta paura di non esser sentito facendo troppo leggermente. Ed una via di mezzo non la conosce; non si sente. Cerca di accarezzarle il capo- ma poi, abbandona velocemente il tentativo infilando la mano nel pulviscolo sul legno. "Akuma" un kanji esce tra il terriccio e la polvere decretando un nome e continuando, spostando l'unghia lungo il sordo del pavimento. La osserva in tralice. "Vuoi." ... "Vedere" ... "Oto?" scrittura tremante e probabilmente, con qualche gambetta di troppo- o storta. Una proposta abbandonata nell'aria come il rintocco di un orologio. E il palmo, conduttore del veleno se solo filtrasse il chakra tramite le ghiandole cambiando solamente direzione- le vien offerto come un piatto d'argento su cui banchettare. Offre, toglie, si prende gioco? Se solo il suo sguardo fosse meno atrofizzato- lei potrebbe almeno capirlo. [ck on]

21:42 Haran:
 Si flette, l'albino, in una posa pigra, pacata, muovendosi con fare semplice e rilassato, come se nulla possa turbarlo. Akira scruta la sua espressione e nelle sue iridi non trova alcunché. Nessuna emozione, nessun sentimento, nessun pensiero. Non c'è nulla che traspare dal suo sguardo ed in parte se ne sente persino invidiosa. Vorrebbe poter essere estranea al mondo come lui, farsi scivolare davanti agli occhi qualsiasi cosa senza farsi coinvolgere da nulla. Vorrebbe essere rilassata e tranquilla come questo strano individuo che par non avere paura di nulla. Non comprende le difficoltà che pare avere nel parlare, non capisce come mai si esprima per lo più a versi e gesti bislacchi, non sa che quel mondo è ricco di deficit e problemi. Tenta però di comprenderlo, di capirlo, quanto meno per offrirgli l'aiuto di cui egli sembra aver bisogno per raggiungere la sua meta, qualunque essa sia. Ma l'altro par aver rinunciato a questa possibilità intimandole semplicemente silenzio. Un suono chiaro e pulito dalle sue labbra che risucchia ogni suono lì attorno. Akira arresta la propria voce, permane silente al suo fianco, avvertendo semplicemente inaspettata quella mano che le carezza la chioma corvina. Una sensazione leggera, impacciata, che la stranisce. Non comprende davvero il motivo di quella carezza, di quel gesto e ricerca nel suo sguardo una risposta fissandolo confusa, interrogativa, con le labbra schiuse. Una piccola ruga a formarsi fra le sopracciglia perplesse nel non trovare in quelle iridi pulite alcuna informazione. Una stele di pietra priva di incisioni ma, forse, ricoperta di miriadi di graffi e crepe. La mano di lui s'arresta, arretra e va spostandosi sul terriccio che impolvera il ponte per scriverle il proprio nome. La clone legge, smuove le labbra, sillaba a voce bassa quella parola. <Akuma> scandisce piano, semplicemente, quel nome rialzando quindi il capo come per trovare conferma nella sua espressione. <Io sono Akira> si presenta, a sua volta, con fare semplice, leggero, prima di scostare nuovamente lo sguardo sul terreno. Una nuova frase, una richiesta, una proposta che la porta a boccheggiare in silenzio un istante. Non sa bene cosa sia accaduto ad Oto, non sa se Shisui l'abbia presa in giro nella sua illusione o se invece fosse tutto vero, ma il dubbio aleggia teso nella sua mente. <Io... credo d'averla vista, una volta. Ma era...> si ferma mordendosi il labbro inferiore, schioccando la lingua leggera sul palato prima di riprender parola. <...Posso mostrarti?> domanderebbe, quindi, trovando molto più semplice questa via di comunicazione al semplice parlare. E quindi, se egli avesse acconsentito, ecco che l'Uchiha sarebbe andata ad unire al petto le mani per comporre il sigillo della Capra. Cercherebbe di calmarsi, estraniare dalla mente tutti i sentimenti che la pervadono ed i pensieri che la travolgono lasciando solo un grande silenzio. A questo punto tenterebbe di radunare all'altezza della mente le energie psichiche ed all'altezza del ventre quelle fisiche estraendole e concentrandole da ogni parte di sé. Arriverebbe quindi ad ottenere due grandi fonti di forza che, con un moto rotatorio ascendente e discendente andrebbe a far unire e scontrare all'altezza del plesso solare dove si trova composto il sigillo della Capra. Qui andrebbe a far sì che le due si fondano fino a lasciare che diventino un'unica nuova energia: il chakra. [Tentativo Impasto chakra]

21:58 Chie:
 Il vento come una Banshee che piange nelle orecchie, e sotto il parapetto sfumature rosse nell'acqua divengono nere come il petrolio- come i capelli di Akira che lui guarda volar via dalla pelle sotto la mano infida del vento. Si limita ad osservare, cercare di comprendere oltre le sfacettature nelle rughe della sua pelle. Per poi trovarci cosa? L'ennesimo punto interrogativo. Non comprende- non comprende se abbia sbagliato o se sia stato per l'ennesima volta inopportuno. E' questo che porta la notte- alla fine. Sentirsi a disagio pure nella propria pelle. Pure d'innanzi ad un estraneo di cui dovrebbe importarti poco più che niente. Quando il brusio s'accheta- lasciando che dal villaggio soffi solo silenzio, lui si concentra sul piccolo viso che un paio di dèi scorbutici muniti di una manciata di dadi gli hanno buttato in avanti. Questo cosa vorrebbe significare? Inevitabilmente incontrare qualcuno è divenuto sinonimo del -noncontrollo-. Non controlli chi c'è e chi non c'è nella tua vita. Non controlli chi rimane. Chi ti ama. Chi amerai. Non hai potere- pedina. Macchinario. Le guarda prima le labbra, poi le mani- seguendo come un segugio ogni sua singola parola. Ma era? "De-va-stata" Raceudine gracchia fuori dalle labbra, gli sporca il muso mentre curva le spalle in avanti con un filo di scetticismo. Ecco l'unico ed ultimo ricordo di Oto: Devastazione. Macerie, polvere, morte. Kunimitsu e Itawooshi che lo hanno mandato lontano- verso Konoha, pure quando i Doku avevan trovato sede nel paese dell'Erba dove forse, anche lui, avrebbe fatto ritorno. Il collo si tende di lato, in un cenno d'assenso verso quella domanda. Non ha nemmeno idea di cosa lei stia esattamente parlando-ma alla fine, che tipo di male può mai fargli? Le dita scivolano verso il basso, in direzione del borsone che s'è trascinato dietro per tutto il tragitto da qui al Tanzaku-Gai. Lo punzecchia, stropiccia- il classico movimento di poco conto rimanendo flesso sulle piante del piede e riverso in avanti- come se portassero avanti un colloquio intimo. Solitario pure in mezzo al mondo. [ck on][innata passiva]

22:14 Haran:
 Non ha paura, non è spaventata dalla figura di Akuma, né preoccupata. Non lo conosce, non lo comprende, lo trova a tratti bizzarro in quel suo strano modo di comunicare. Eppure trova quasi rassicurante la sua presenza pacata, silenziosa, quel suo modo di muoversi semplice, cauto, che non fa rumore e non è sgraziato. Come una foglia smossa dal vento, come acqua che scivola su di un vetro sporco. Così l'altro si muove molle, tranquillo, apparentemente innocuo. Eppure... oh, quanto sarebbe semplice per lui uccidere, vero? Quante volte l'avrà già fatto? Quante ancora lo farà? Ma lei non ne ha idea, non può saperlo e non riesce a scorgere in quelle iridi vacue una vera minaccia. Trova in esse, più che altro, una solitudine senza fine. Lo vede estraneo ad ogni cosa, distante dal mondo stesso nel quale si ritrova prigioniero. Cammina per quelle strade eppure è come se fosse tremendamente fuori luogo, terribilmente lontano da ogni cosa che sia terrena. La colpisce, l'incuriosisce il bizzarro modo in cui egli si confonde con tutto ciò che è naturale e vivo in quel mondo e si ritrova ad udire quella parola rauca soffiata dalle sue labbra. Annuisce, lenta, a quella sola parola confermando il suo dire. Rimangono chinati, l'uno accanto all'altro, in una posa che forse potrebbe apparir buffa ad occhi estranei ma che loro trovano adeguata. Akuma annuisce, le dà il permesso di mostrargli quanto intendeva e, Akira, semplicemente procede. Andrebbe a concentrarsi sul chakra appena richiamato per andare d prelevare una parte di esso e farlo fluire lungo gli tsubo del suo corpo, dalla testa. Andrebbe a generare un unico filamento di energia costante e diretto che dovrebbe andare a trovar meta e sede nella mente altrui, più precisamente nelle zone del cerebro che controllano vista ed udito. Provocherebbe tali punti sottomettendoli al di lei comando modificando quindi la realtà circostante dell'albino. Il ponte, gli alberi, il fiume, tutto quanto svanirebbe attorno a loro subito sostituito da un assai diverso scenario. Andrebbe a mostrargli la piazza principale di Oto così come la ricorda, così come l'ha veduta tempo addietro nell'illusione ricevuta da Shisui. Monumenti distrutti, palazzi in fiamme, cenere e detriti a ricadere ovunque tutt'attorno. Un cielo buio illuminato da folgori e fiamme che salgono come falangi nodose da edifici in rovina. Non conosce quel luogo, non v'ha mai messo realmente piede, eppure le è rimasto impresso nel cuore da quel giorno. Akuma si dovrebbe ritrovare come teletrasportato in una Oto distrutta dalla guerra, col suono delle fiamme che crepitano e il vento che soffia alle orecchie. Akira, in tutto questo, permarrebbe con le iridi bicromatiche a specchiarsi in quelle dell'altro, silente per una manciata di interminabili secondi. <Cos'è successo ad Oto, Akuma?> domanderebbe lei, cheta, smuovendo timidamente le labbra, con espressione quasi incerta non sapendo davvero se desideri sapere o meno la verità. [Illusione di 2 sensi - Vista e Udito] [chakra: 27/34]

22:39 Chie:
 Come una cupola ricurva e lui, piange in sua direzione come se stessero aspettando che qualcuno spifferasse il segreto dell'anno uno nelle orecchie dell'altro. Rimane zitto -sai che novità?- ad ascoltare, ad attendere che l'immagine o il racconto di Otogakure possa piovergli dal cielo direttamente addosso. E la pallidità limpida di chi non ha realmente capito un H dalla vita ma comunque, si ritrova alla sua veneranda età ad esser una tela senza macchie che assorbe tutto quel che c'è- tutto quel che la intacca, la strappa e colora- per poi farlo scomparire dalla superficie e tenerselo per se. Ne ha raccolti di fiori e insulti. Ed ha ingollato più veleno di quanto non sia sano ammettere in questa vita davanti ad occhi che non capirebbero abbastanza cosa realmente vorrebbe dire. E così parte dopo parte della sua mente si smolecola, distrugge- e si sente come appeso ai fili di un burattinaio che- per quanto esattamente sarà clemente con lui? Schivo- sospettoso, lascia che lei lo intubi in una realtà parallela, nell'immagine riflessa di una Oto in decadenza. Niente di più doloroso per uno shinobi che "non vale niente". Come pietra fusa e poi raffreddata lì- d'innanzi a lei. Prostrata ed ora, con il mento che si solleva- schiva il profilo di Akira e guarda il suo villaggio finire in pezzi per la mano di un megalomane poco sazio di quel che aveva. Si leva con la mole immensa di una quercia e la calma serafica del sole filtrato dalle foglie in primavera- e non se ne accontenta- oh no. Tenta di fasciarle il polso con la destra per trascinarla ad alzarsi con se. Un po come se volesse obbligarla- in un modo che sa di ruvido e di altrettanto morbido. Trascinarla a vedere come- come è caduto tutto quanto. Come loro son divenuti parassiti. Niente. Feccia. <'N- Genjushita.> Un maestro dei Genjuster. Ecco l'inizio di un racconto. E la sinistra si allunga ad indicare un punto lontano- poco preciso. Un punto dove l'illusione non arriva- essendo probabilmente la proiezione di una proiezione regalata ad Akira. Ma lui, spiffera fuori. Voce che graffia il petto, bassa. Regalata ad un solo paio di orecchie. <La guerra di Kyu-zo. Non eravamo--> .. <Preparati.> Lo sguardo si punta automativamente verso il Promontorio delle Vibrazioni. Ed il quintetto del Suono? Oh- non li ha mai visti nemmeno Akuma. Fosse riuscito, libererebbe la presa dalla Uchiha prima che possa divenire troppo dura- troppo forte. E la mano trema, freme di un nervosismo che non si rispecchia sul viso. E' come se fosse sconnesso anche da se stesso. Frammentato, occhi, labbra, mani- le gambe cadono contro il pavimento ligneo senza riverberare nelle sue orecchie. E le fiamme baciano il cielo, oltre le montagne e l'arrampicarsi cupo di Oto addosso al nulla. Non c'è molto da raccontare di questa guerra. Fu caos. Dagli Hokage di Konoha, agli attacchi di Oto e la distruzione della stessa. <Non. E' rimasto. Niente.> Come dire di dimenticare il Villaggio del Suono e progredire. Il tremore aumenta- in spasmi che si spingono a grattare un punto preciso sotto la nuca. Con le unghie corte- le dita spesse che arpionano la pelle senza fenderla. Gratta lì dove i lividi affiorano. Gratta lì dove i graffi vecchi sorgono da sotto l'Haori. <Akum-a. Fatto suo- lavoro. Aku---ma, obbedito. O--tto-san.> Scandisce, nenia, piangiucolìo dovuto a quelle immagini senza odore ne calore. Ma lo ricorda nitidamente. Lo ricorda abbastanza bene da non aver bisogno d'altro per evocare. Ed è in un angolo. Dove si sposta il dito di Akuma- che un uomo tira fuori un ragazzetto pallido e malato dalla polvere e le macerie, gettandolo poco più in li. Non sembra manco respirare, quando lo prendono a calci. Qualcuno dice qualcosa- labbra che si muovono. E sebbene lei non possa sentirle, Akuma muove le sue: <Se lo uccidiamo ora, sembrerà solo una vittima della guerra.> La voce rauca esce sicura; come se fosse stata ripetuta un milione, un miliardo- ogni singola notte della sua vita. <No, aspetta. Può ancora sviluppare la seconda.> Kopijuster innato- ambiziosi i genetisti. Lo sono sempre stati. Senza scrupoli. Ambiziosi. Incoscienti. Ritra solamente il capo verso Akira- atarassico. Oh, si può sanguinare sempre con la stessa identica espressione facciale? Si può, guardalo- giovane kunoichi. Come guarda i tratti del tuo viso senza vederli. Come schiude le labbra e fa un cenno da destra verso sinistra "Basta" vuol dire. Basta. Voglio uscire. <No-n. Cerca-re. Ris-p-oste.> [ck on][innata passiva]

23:02 Haran:
 Non ha intenzione di ferire, Akira, con quel fare. Ignara di quanto male può causare un ricordo tornato alla vita. Ignara di quanto dolore può causare la vista della propria dimora devastata. Si ritrova a ferire senza volerlo, senza rendersene conto, quella mente distorta e complessa ch'è Akuma, non potendo scorgere nella sua espressione il dolore, ma solo la solita monocorde espressione che si guarda attorno. Osserva una Oto eco di un ricordo non suo. Lascia che lui contempli, guardi, scovi e che vada a cingerle il polso, alzandola. Asseconda il suo gesto, incuriosita da quella sua iniziativa, andando a ridistendere le leve inferiori così da tornar eretta in tutta la sua scarsa altezza. Muove pochi passi, quanti sufficienti a seguire la scia dell'altro, udendo le sue parole incerte. Ascolta quel tentativo di racconto, quelle piccole frasi e guarda là dove egli indica, di volta in volta, sentendosi d'improvviso fuori luogo nella sua stessa illusione. Figlia di una terra sconosciuta, di laboratori che non ha neppure mai visto coscientemente. Akuma par rimanere immerso in quella illusione navigando in essa, guardandosi attorno, andando a rivelarle come di quella città in distruzione non sia ora rimasto alcunché. Forse cenere, forse polvere. Di sicuro i ricordi di chi lì ha potuto vivere. Ma in qualche modo quella visione perde d'importanza agli occhi del clone quando i movimenti di Akuma si fanno nervosi. Trema appena lui, grattandosi teso la nuca, i capelli, lasciandole modo di scorgere quegli aloni violacei, dolenti, quei graffi che come crepe si dilungano sulla pelle. E le iridi di lei si fanno ora meno curiose, meno brillanti, più meste. Cosa nasconde quel giovane dietro quell'espressione impersonale? Cosa cela dietro quello sguardo distante, quelle labbra insolite? La sua voce esce nuovamente lamentosa, roca dalla sua gola e porta Akira a schiudere le rosate, fissandolo con esitazione. <Cos'hai fatto...?> una domanda spontanea, lenta, incerta, che trova spazio fra loro mentre tutt'attorno crolla e muore. La ragazza segue la traiettoria tracciata dal dito di lui e scorge, in lontananza, una scena muta. Un uomo tira fuori dalle macerie un ragazzino esile, pallido, sporco, per poi spingerlo semplicemente poco distante, con malagrazia. Lo colpisce, l'attacca, sembra quasi ripiegare su quel corpo martoriato una frustrazione di anni. Akira sente le pupille contrarsi, le iridi dilatarsi e le labbra schiudersi, inorridendo di tale crudeltà. Stanno dicendo qualcosa ma lei non può dire nulla. Nulla, se non la voce ora sicura e ferma di Akuma che va a ripetere un copione apparentemente imparato fin troppo bene nel tempo. Lo sguardo di lei va calamitato verso il volto del Doku, rimane sorpresa della disinvoltura con la quale esce ora la sua voce e scorge in quelle parole una meschinità sottile. Un discorso agghiacciante, sinistro, che la porta a sentire il cuore stringersi. <No...> mormora lei rifiutandosi di sentire ancora quel racconto, le dita a portarsi verso le orecchie, coprendole, cercando riparo da qualcosa che brucia nel petto. Perchè? Perchè prendersela con un ragazzo così indifeso? Perchè voler uccidere qualcuno così stanco? E' ingiusto. E' vile... è crudele. E poi Akuma torna a squadrar l'Uchiha, scuote il capo, le chiede di interrompere il suo fare. Un istante, un secondo soltanto prima che l'illusione cada e il ponte torni a rivelarsi attorno a loro in tutta la sua semplicità. La brezza soffia fresca, il fiume torna a scrosciare sotto di loro, la vegetazione a frusciare. Una notte pacifica e serena in quel di Kusagakure mentre dentro di lei v'è ora tormento. <Non volevo turbarti> risponde dopo una manciata di secondi di silenzio a seguito delle parole di lui. <Mi dispiace di averti mostrato qualcosa di brutto.> continua sinceramente mortificata portando ora lo sguardo a spingersi lontano, verso l'orizzonte, oltre il ponte. <Non so cosa voglia dire veder la propria casa crollare> Se è per questo, teme, non sa cosa voglia dire avere una casa e basta. [chakra: 27/34]

14:42 Chie:
  [Estemp: Parapetto] Mentre il buio gli si spegne addosso come la fine di una sigaretta consumata, si abbandona -sagoma e mente- all'imbrunirsi della notte. Del sostituirsi trillante dei grilli e le cicale al brusio di un villaggio non troppo lontano. Frammenti e ricordi che vanno perdendosi sotto passi sempre più incerti. Sotto tonfi inclementi, che curvano pigramente le travi di legno al di sotto del peso di quelle leve mobili. Incuranza infantile nelle parole scelte da dire verso chi di queste vicende- sa solamente le storie abbandonate di bocca in bocca. Ecco perchè Akuma non parla. Perchè le parole, più delle mani, sanno fare terribilmente male. Sanno lasciare segni, cicatrici. Marchi. Dipinge il viso metà bianco- metà occultato di una smorfia che non sa esattamente di niente. Lascia perdere, Akira. Non fa niente. La mano che prima grattò la nuca in modo frenetico, ora si solleva a portar indietro i capelli albini. Nasconderli in una matassa di neve e cenere ingestibile; come se non fosse mai successo niente e come se le contusioni sulla pelle avessero un valore ordinario. Qualcosa di molto simile a l'esser dei -bambini soldato-. Crescono con dei concetti e delle abitudini che rientrano tanto nella quotidianità da sembrare altrettanto bizzarre quando poi scompaiono dai nostri giorni. Fili d'oro che percorrono il parapetto del ponte, guardano al di la del nulla- dove le onde chete cozzano ubriache qui e li, al bordo del bacino del fiume. Non una mossa. Non un gesto. Assorbe- questo è più che chiaro. Non sai cosa voglia dire veder la propria casa crollare? E oh, Akuma è davvero un uomo di poche parole. Ma sa esprimersi- quando i segni gli sono favorevoli- nel migliore dei modi. Dovrebbe aver compiuto già un passo oltre la figura di Akira nell'illusione- alle sue spalle ed altrettanto di spalle a rimirar il nulla e pesar quel che dice su un bilanciere mentale. Ha facoltà di starlo facendo. Ha facoltà pur di giudicare quando esso stesso non dovrebbe esser nella posizione di farlo. Progettato come una macchina che poi- s'è rivelata così terribilmente malforme. Difettosa. Le leve che si muovono a girarsi verso di lei e la destra solamente, libera dall'impiccio dei capelli- prima sfiora il fianco morente e dopo una falcata celere in sua direzione si solleva a sfiorarle il fianco. La delicatezza del "Loto" così pallido e incosciente di quel che fa- di quel che stringe, fino a strangolare. Così ossessionato dall'esser nulla- e continuare ad esserlo per mantenere un profilo assurdamente anonimo e senza colori. Le ciglia bianche sfiorano le palpebre e ricadono a mezz'aria abbandonando nell'eterocromia preziosa di Akira, le sue due monete d'oro. Le uniche che avrà per pagarsi il viaggio nella morte. Rude però è il modo in cui cerca di tirarle via l'obi, di disordinarle la perfezione nel vestito. Nel distruggere la cura che avrebbe una donna quando veste il kimono -più di quanto noi occidentali potremmo comunque capire-.Dal drappo inferiore che s'intreccerebbe tra le dita, strappa indietro il gomito toccandosi il lato del costato e superandolo pure, al fine di farglielo scivolare via. Non capisci, Akira? Ecco la sensazione di vedere la tua casa crollare. Una sensazione d'inopportuno. Fuori posto. Disagio. Inappartenenza. E ti senti nuda e spoglia, pure quando forse- non contava così tanto. Non è l'intento di spogliarla davvero- il suo. Ma quello di fargli sentire l'incipit di questo "abuso". La guarda Akuma- come se non stesse comunicando niente, nient'altro che un forte senso di rabbia. Ma non è così. <Co- me.> Come ti senti, ora? Fosse riuscito, stringerebbe il suo obi nel pugno- tra le dita che come zampe d'un ragno dalle nocche callose stringono la stoffa neanche stesse per diventar polvere lì. Sul posto. Un passo. Viola ogni spazio personale per farla sentire ancora più oppressa- violata, appunto. <C-ome ci si s-ente--?> ... <La verità-> Sputa in un soffio basso, rauco, recuperando il respiro con un semplice fischietto ai polmoni che sibila tra i denti ancora serrati. Parla così piano da apparir come una marionetta, senza labbra che si muovono. Senza aprire eccessivamente le labbra squamate a mo di rettile. <E' che- non. C'è.> Pausa. E' come se il vento gli ululasse tra i capelli. Tra quelle parole regalate ad Akira. Fermando tempo e suoni, all'infuori del vento. <Una-- c-a-sa.> Non c'è mai stata. Ed Ora i sopravvissuti di Oto, non son altro che servi dei laboratori. Servi dei loro padroni. Dei genetisti- dei capi-clan. Del Kokukage. <...> Zitto, abbassarebbe il mento muovendo un passo sul posto- prima di lasciarle il suo spazio. La sua libertà di movimento. [ck on][innata passiva][agi 75// for 30]

15:33 Haran:
 Parrebbe una nottata come tante. Serena, tranquilla, agitata da una brezza leggera e dal lontano canto di cicale estive. V'è quiete, v'è calma a guardarli, l'uno dinnanzi all'altro, in piedi nel bel mezzo d'un collegamento in legno fra l'una e l'altra sponda. Le onde a scorrere distanti, sotto di loro, il cielo a vegliare lontano al di sopra. Sospesi nel nulla fra cielo e terra, sopra e sotto, rimanendo semplicemente ancorati ad uno stato di nulla. Insignificanti e piccole pedine in una natura fin troppo vasta, fin troppo estesa, sconosciuta. L'illusione decade e così anche le loro voci. Akira tace, non aggiunge null'altro, sentendosi nel profondo infelice nell'aver mostrato quella scena al ragazzo. Teme di averlo ferito, di averlo fatto sentire come Shisui fece sentire lei quando le mostrò in quell'infida illusione il cadavere squartato ed orbo di Katsumi. Un dolore da far salire la nausea alla gola, che si riverberò in lei per giorni prima di chetarsi. Non voleva arrecare tali sensazioni nell'altro e non sa come scusarsi oltre che con le parole. Qualcosa di effimero che non può esprimere quel che sente. Si umetta nervosamente le labbra, a disagio, fino a quando non vede Akuma muovere un nuovo passo in sua direzione, raggiungendola. Si ferma dinnanzi a lei, l'osserva, e lei si perde per un istante in quelle iridi d'oro. Inespressive, vacue, vuote, non lasciano trapelare alcunché di quanto sta per accadere. Akira non comprende, non sa cos'aspettarsi, in parte avverte un fremito nervoso nel ventre. Tesa, confusa. Non sa se dovrebbe scostarsi o attendere immobile qualcosa. E poi l'albino si muove, semplicemente, raggiungendo i di lei fianchi con le mani. Un gesto inaspettato, intimo, che la porta a schiudere le labbra confusa boccheggiando, le iridi a dilatarsi fissandolo basita. <Akuma cosa...> balbetta, boccheggia, sentendosi improvvisamente nervosa. No. Non vuole. Non vuole che nessuno più la tocchi, non vuole più essere raggiunta da nessuno. Non v'è dolcezza o gentilezza in quel contatto, ma si rivela ugualmente un modo per stabilire una connessione con lei. Qualcosa che vuole rifuggire e allontanare onde evitare di rimanere ancora ferita. Ma l'altro procede e par quasi un bambino capriccioso che desidera impossessarsi d'un bene altrui. Tira, strappa, toglie via dalla di lei vita quell'obi scarlatto portando Akira a trasalire, tentando di fermare quel modo portando le mani sulle sue, d'istinto. <Fermo!> esclama impacciata, intimidita, preoccupata. <Che fai?! Lasciami!> esclama cercando di stringere fra le falangi affusolate la carne di lui, delle sue mani, nella speranza di allontanarlo. Ma è debole, priva di vera forza, e i suoi piccoli pugni non servono a nulla contro di lui. S'impossessa semplicemente di quella fascia rossa lasciandola col kimono scomposto, in disordine, ad allargarsi appena sul corpo, sul petto dolcemente accennato. Le mani volano quindi a tentare di tenerlo fermo, coprirsi, sistemarlo al meglio per non lasciare che s'apra. Il respiro è accelerato, indietreggia, fissandolo con espressione basita, le sopracciglia aggrottate. <Perchè?> domanda l'Uchiha. Non comprende, non capisce, si sente violata nel suo spazio da quell'intromissione pacata. Akuma stringe l'obi nel pugno, la guarda, parla e quel che dice la porta a sentirsi piccola, insignificante dinnanzi a lui che, avanzando, si pone nuovamente a lei d'innanzi. Alto, robusto, con le spalle larghe e quel fisico estremamente più pronto e letale del suo. Akira l'osserva incapace di distogliere lo sguardo, intimidita, colpevole, stringendo il kimono fra le dita fragili per tener coperta la pelle candida del suo corpo. <Male.> replica semplicemente, d'istinto, senza pensare davvero alle parole che dice. <Fa male> ripete con voce monocorde, bassa, delicata, rispondendo alla domanda che lui le pone. Scombussolata, infastidita, spaventata dalla sua intromissione. Turbata e agitata per via di quell'improvviso atto di prepotenza che non s'era aspettata. Potrebbe descrivere quelle sensazioni con mille parole diverse ma alla fine la verità è solo una. E' spiacevole. Fa male. Akuma parla nuovamente con quella sua voce rauca, forzata, bassa, come un strisciare sibilante di serpente fra le rocce. Parla piano, lentamente sillabando tentennante quelle parole che portano Akira ad abbassare lo sguardo. <Casa non è dove nasci> commenta alla fine, con voce malinconica, battendo le ciglia con un moto inesorabile, lento, quasi solenne. <Casa è dove stai bene> continua rialzando ora il viso e ponendo lo sguardo triste nelle iridi d'oro del Doku, cercando una qualche reazione nei suoi occhi apatici. <Hai mai avuto una casa, tu?> domanda allora, Akira, alla luce di quella nuova definizione. Non un posto concreto, reale, dunque. Ma quasi uno stato mentale. [chakra: 27/34]

16:06 Chie:
  [Estemp: Parapetto] E' spiacevole tanto quanto per lui- che non capisce esattamente la linea del 'giusto o sbagliato'. Dove stai camminando troppo più in la, in direzione di una persona? Quanto a lungo puoi tenere le mani sul suo collo prima che si spenga? Escono parole come un anatema per la salamandra che rimane lì, colpita dal vento. Con l'haori grigio pallido che si muove in pieghe contro il petto e le spalle, facendo svolazzare il colletto arrotondato e tirato su a coprire il necessario per non sembrare un uomo trasandato. Fruscii contro le ginocchia, cigolii degli anfibi che premono passi e soste contro il ponte. Non sa nemmeno con esattezza quanto tempo sia passato nel mentre di quest'incontro. Ed ignora, totalmente, il dolore di Akira. La guarda- quest'è vero. Le guarda punti e frazioni selezionate come farebbe uno specialista davanti ad una serie di fotogrammi. L'affanno e il rifiuto del suo contatto. Cercare la fuga dalle sue mani. Chiedere di fermarsi. E poi- pezzi di pelle come rotoli di pergamena che scivolano tra le dita. Sebbene non fosse stato quello l'obbiettivo, le pepite d'oro colano dal mento- lungo la gola, il trapezio morbido interno alle spalle e inevitabilmente- clavicole e petto. Sguardi fulminei- analitici. Sguardi che non lasciano ne sorrisi perversi, ne occhiate maliziose. Vetro sporco. Osserva. Tace. Ritorna nei suoi occhi. La lingua che solitamente carezza il palato si stacca lasciando scorrere aria nella gola che prende a pulsare assieme alle ghiandole di veleno poste alla base della stessa -al pari di tonsille infiammate- a causa di una malformazione fisica che le vuol vedere decisamente più sensibili del normale. Labbra schiuse che danno su un respiro. Il petto gonfio va diminuendo incassando le spalle all'interno della figura, portandosi l'obi di Akira alla tasca. Un movimento poco accurato- un po come quando cerchiamo di liberarci le mani di una sciarpa e la infiliamo in borsa alla bell'è meglio. Mezzo fuori e mezzo dentro. Orna il fianco di rosso, come un pendolo in una figura terribilmente monocromatica. Dovrebbe chiesersi se le ha fatto male, strappandole l'obi di dosso e facendola sentire così-- piccola? Soggetta? Non lo fa. Anche Akuma ha i suoi difetti e calpesta- tra virgolette, l'orgoglio dell'Uchiha osservandola ora. Stretta nel suo kimono meraviglioso. Arruffata come un corvo a cui qualcuno ha scombinato le penne. Dalla matassa d'ebano. Alle labbra che chiedono, chiedono, chiedono! Ti era stato detto: Non cercare risposte. Ma no, invece, inesorabilmente- fa parte della natura umana non esser contenti. <...> Lo lascia confuso. Ed è una reazione che finalmente palesa aggrottando sopracciglia fini- inesistenti dato il colore pallido. Guarda uno sprazzo di legno. Il parapetto. Rabbuia l'oro facendone ambra millenaria ed allo stesso modo- così poco saggia da farlo sembrare un allocco- ogni tanto. Si è mai sentito- a casa? Uno stato mentale- certo. Sentirti, non "essere" a casa. <K-ah.> Soffia rauco, dal petto. Sì, forse- una volta, s'è sentito a casa. <Kaori-- Hyuga.> Tristemente tutto quel che l'ha fatto sentire bene, è tutto quello che ha deciso di lasciarsi indietro. Di non cercare. Di abbandonare mentalmente e fisicamente. Ma ecco che- dopo, scuote il mento liberandosi testa e capelli di quel ricordo. Onde bianche lungo il viso, lunghe fino alle clavicole nascoste dall'haori di cotone. Abbandono. Sì- conosciamo questa parola. <Casa è--> Ecco, pronto- chiosa, baritono come il borbottio del temporale. Pronto a calpestare ogni convinzione puritana di Akira- l'adorabile, dolce Akira. <Dove. Ubbidisci.> Casa non è mai stata Kaori. Non ha mai sentito sensazione diversa dal dovere e l'appartenenza. Lui risponde. Tutto qui. Senza mente. Senza idee. Rinnega anche quel piccolo opale di luna al quale rubò le labbra per il capriccio di sentirsele addosso. Di strapparle il bene e conservarselo nel petto come l'unica- minuscola, nota di colore. Una nota strappata via dalle stesse ennesime mani. Quindi no- non si è sentito a casa. Akuma riconosce come Casa solo quella a cui ubbidisce. Quella per cui uccide e combatte. Muove il capo con un cenno di diniego. Spaesato. Forse- colpito con uno stiletto da trenta centimetri tra le costole centrali sarebbe rimasto indenne. Ma quando torna ad osservare gli occhi di Akira- pendendo nel silenzio delle sue stesse riflessioni muove il mento. <A-kira. Non.> Non c'è. Non c'è una casa. <E quello che- tro-viamo.> ... <Non lo-- m-meritiamo.> Non c'è. E se ci fosse- ad ogni modo, sarebbe meglio lasciarlo andare. Si curva il giusto per riprendere il borsone. Una persona e il suo passato in esattamente settanta centimetri per trenta mezzi vuoti. Se lo carica in spalla e con lo sbattere ciondolante dei passi contro il legno, l'abbandona senza obi. E senza una risposta. Oto? Oto è caduta per gli stessi abitanti della nota. E Akuma? Akuma non s'è mai sentito a casa. E Akira? Si sente a casa? [ck on][innata passiva][end]

16:34 Haran:
 Dovrebbe forse fuggire, in quel momento, da quella persona. Qualcuno d'assennato, di ragionevole, probabilmente l'avrebbe fatto. Sarebbe fuggito da un qualcuno che deliberatamente strappa e prende ciò che non gli appartiene con quello sguardo sempre fermo, inespressivo, come se neppure si rendesse conto di star toccando una persona. Qualcuno probabilmente avrebbe visto in lui una rozza sconsideratezza e avrebbe cercato riparo da quelle mani invadenti. Qualcuno, forse. Ma non Akira. Sciocca, sciocca Akira che rimane a tentare di fermarlo, di proteggere quel semplice lembo di tessuto che le tien unito il vestito. Che rimane come stranita ed incuriosita da quello sguardo spento che si posa su di lei con la stessa causale indifferenza con la quale potrebbe poggiarsi su di un vetro crepato. Le sue dita si ritirano, alla fine, vittoriose tenendo con sé quell'obi scarlatto che non le viene reso. Lo tiene con sé, arrotolandolo, infilandolo alla rinfusa per metà in una tasca. La ragazza segue con fare stupito quel fare, tenendo strette le altre vesti al suo corpo, notando però in lui la solita espressione imperturbabile. Non vede cattiveria nei suoi occhi quanto più una semplicità disarmante, come se ogni cosa fatta o detta finora fosse logica e scontata ai suoi occhi. Ed allora parla, cerca di comprendere, di capire il clone, ritrovando per la prima volta sul suo viso un accenno di espressione. Distoglie lo sguardo, aggrotta le sopracciglia, si rabbuia appena mentre par riversarsi in ricordi lontani. E poi dice qualcosa, un soffio mesto e rauco che porta Akira a schiudere le labbra con sorpresa. Ha già sentito quel nome, sicuramente ha udito quel cognome durante gli studi fatti con Arima nel tempo. Non la conosce, non sa chi sia, ma sa che ha partecipato al torneo dove lei stessa ha partecipato. A quanto pare, per Akuma, lei è stata casa una volta... come per lei lo è stato Katsumi. Hitachi, prima di lasciarla. Ma in qualche modo quel momento finisce così com'è iniziato perchè il ragazzo va scacciando via quel ricordo tornando alla solita espressione, andando a smuovere nuove parole, basse, rauche, decise. E Akira aggrotta le sopracciglia sentendo quel dire, lo fissa confusa, interdetta, trovando qualcosa di triste e distante in quella frase. <No... Akuma.> scuote lentamente il capo, triste, tornando a fissarlo poco dopo con le braccia conserte al petto, intente a tener su quella veste nera non più retta e sostenuta dall'obi scarlatto. <Casa è esattamente il contrario...> Casa è dove puoi sentirti libero. Dove puoi essere se stesso ed essere apprezzato per quello. Casa è sentirsi al sicuro, sentirsi voluti, sentirsi apprezzati. Casa è calore ed è pace. Ma lui par essere di una idea totalmente diversa, totalmente distorta e nera. O forse è lei a non capire e sbagliare, forse è lei che crede ancora nelle favole di un istinto troppo ingenuo. Forse è lei a sbagliare, a credere in qualcosa che allieti la triste realtà. Ascolta quelle ultime parole e si ritrova a vedere il ragazzo riappropriarsi del bagaglio. Un movimento semplice, deciso, che lo porta ad allontanarsi senza neppure una parola, neanche un saluto. Se ne va con la stessa semplice flemma con la quale è arrivato, arricchito di una fascia rossa a pendere dalla sua tasca e delle mille e più domande che l'Uchiha gli ha donato senza trovare reale risposta. Ne vede la schiena farsi distante, più piccola, fino a vederlo svanire, ritrovandosi nuovamente sola con quella domanda a rimbombarle per la testa. [END]

Un incontro bizzarro, strano, fra due anime sole.

Un soldato privo di reali pensieri, una fanciulla ricolma di domande.
Un tramonto a tuffarsi nel fiume ed il ricordo doloroso di una Oto in fiamme ad accogliere la loro strana conoscenza.