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月夜・Moonlit night

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Giocata di Clan

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con Kioku, Hana

20:47 Hana:
  [Lì] Lontano dalle pieghe tortuose delle antiche capitali, macinati chilometri tra villaggio e villaggio, s’estende un selciato fatto di tormenti – tanti quanti le gravano addosso, condensati nelle labbra – scarlatte – fessure torturate dai denti che drenano il nervosismo con un morso in più. La si vede procedere, bella d’abbandono, che sia d’un nome o di una mera identità – il corpo si piega e s’allunga sostenendo il ritmo del passo scandito ma così leggero da sembrare vagamente impercettibile, nulla, essenza di cui l’esoscheletro impalpabile pesa null’altro che pochi grammi. Risplende come un astro inutile, fredda maestà di una donna sterile d’emozioni attualmente – come la sabbia spenta e l’azzurro dei deserti, insensibili entrambi all’umano dolore, come lunghe trame dell’onda marina, ella si muove con tutta indifferenza. Occhi che non rivelano né dolce né amaro, stanzia ridondante l’azzurro dell’immenso cielo ricurvo. Sui bordi vellutati delle ciocche ritorte ove s’inebria con ardore ogni sentore immischiato ai flutti di loto di cui s’imbastisce il corpo, trova adito il candido incarnato che rasenta il più mortifero alone latteo presso il quale cerca ricovero ogni filamento terribilmente piatto, sottile, che discende lungo la schiena e saggia i polpacci coperti, sbiancato e privato del nero ove il Tao viveva imperterrito ormai cancellato e lasciando spazio all’indiscutibile luminosità del bianco. Stringe con la medesima perseveranza di una devota fanatica centootto chicchi di rudraksha intessuti in un sol filamento che nel concreto compone il rosario – la Mala. In una nenia mentale ricamata sulla falsariga della cantilena liturgica, i secondi ticchettano scanditi dal suo passo silenzioso, lasciando dietro di sé lo strascico di una tunica rigorosamente bianca, quasi quanto il suo incarnato. Le maniche, larghe e lunghe, occultano in parte le mani dalle dita sottili ed affusolate – specie la destra avviluppata intorno alla mala – rifinendosi nei bordi d’uno scarlatto porpora che a sua volta, copioso, si sporge fino al collo in quello scollo poco accennato. Il braccio sinistro funge da celata alcova del tessen, occultato agli occhi dei più ma consapevolmente pronto a gravare lungo l’arto. Percepisce la futilità di ogni suo armamentario bellico di poco conto, che sia uno shuriken oppure un kunai in più avvinghiato a qualche fuuda mediante filo di nylon: ha saggiato già quel suolo, ogni tentativo di svicolare è scontatamente ridotto al fallimento – un presentimento che, rasente un oracolo, si sente scendere nelle vene. Masochistico è anche solo pensare di tornarci, figuriamoci ora che ne ricalca di nuovo i passi, si direbbe alla ricerca di futura morte: lei, diffidente e obbediente non può farne a meno. Cieca lo è stata per tutto questo tempo, benchè si sia proclamata soltanto ora senza occhi: cieca nel ritenersi non in grado di dar fiducia quando ora si ritrova a perseguire praticamente la strada che le è stata indicata da un morto che cammina, un dannato a sua volta condannato nel far di questo inferno terreno il proprio paradiso. Sulla scia di una fiducia che non barcolla sebbene lei si reputi più che zoppicante, procede scoccando occhiate in tralice a ciò che la circonda: il tutto sembra risuonare a passo di un ego – il suo – schiacciato, calpestato e maltrattato che tuttavia tenta di strattonare e aggiustare come meglio può nel vano tentativo di ricomporre pezzi d’integrità smantellata e che, come collante, il chakra tiene unita – in quell’afflusso d’energia, connubio di psiche e mente, che alimenta il corpo e smuove ogni piastrina dalla stasi perpetua. [ Chakra ON ]

La morte e la desolazione sono lo sfondo di questo strano quanto assurdo scenario, non vi è vita in quelle lande, così come l’aria, fatica a trovar posto, divenendo pesante da respirare, non a caso li vi regna il nulla per chilometri e chilometri, un enorme macchia nera sull’intera mappa, tra i tanti villaggi ecco che spicca, come cancro sulla pelle, si estende, una enorme chiazza morta. Assurdo come una persona possa solo pensare di arrivare fino a li, figurarsi tornare una seconda volta dopo esserne usciti vivi, eppure Hana e la, non di certo poiché la follia ha preso il sopravvento sulla mente ormai provata da ciò che le è stato tolto e negato, si trova in tal loco poiché ben sa, anche in cuor suo, che per quanto possa sembrare strano, le parole del Rikudo Sennin non sono mai spese per i sordi ed un senso lo hanno sempre, nel suo caso più di tutti, dopo l’intensa notte passata. Passo dopo passo, polveri sollevarsi dal suolo arido, l’odore pungente di morte è percepibile per miglia e miglia, avanzare però è l’unica occasione che ha per ottenere risposte, secondo le parole che le sono state riferite, può effettivamente fidarsi? Cosa sa che non le ha detto? Si è preoccupata di chiedergli cosa ha passato in quei mesi di prigionia? Cosa ha effettivamente visto? Forse troppo concentrata nel suo odio, colei a cui la natura stessa le è stata tolta, perdendo tutto il nulla è diventata, ha trascurato questo particolare ed ora cammina, cosciente solo che le parole di Akendo difficilmente sono spese per perder tempo. L’ignoto stendersi ora a pochi passi da lei, l’entrata di quel tempio ormai abbandonato e morente, come il resto del loco, l’enorme tunnel buio, forse la rappresentazione più realistica del futuro di Hana, il silenzio è tombale, quel silenzio preoccupante, non il vento, non altro risuona in quell’ambiente, come se vociare causasse rimbombo, eppure…è ancora all’aria aperta. Dunque a pochi metri la scelta più cruciale, girarsi e tornare indietro, aggrapparsi alle morenti e maledette ali del Rikudo Sennin, cercando protezione o…alzare il capo e con quei celesti occhi brillare, affinché quel tunnel buio s’illumini e ciò che l’attende sia finalmente chiaro.

21:32 Hana:
  [Tempio] In apparenza giace la dimenticanza, eppur è sempre stata portavoce di un credo: non chiedere se non si è sicuri di voler sapere la risposta. Avrebbe potuto certamente scarnificare ogni singola vibrazione di plica vocale alla ricerca, nella mente del Rikudo, di una strada da perseguire o di un filo unico che se tirato potesse sbrogliare la matassa. Non l’ha fatto poiché, prima ancora che si ridestasse dalla propria letargia, quelle poche sillabe filtrate dalle labbra di Yukio le sono bastate: ha un nome, ha una consapevolezza. Ha aspettato di metter piede qui la prima volta per sentirlo dire al Kage, Otsutsuki. Cosa ne sappia poi, non se l’è chiesto proprio per le stesse lacune di colui che le ha fornito un nome e allo stesso tempo ha covato la sensazione che i Kami dei tre clan esoterici si fossero risvegliato. Un portale. Sono frammenti di cocci che se riuniti formano un quadro sicuramente lineare ma che ora giace sostanzialmente distrutto nella sua mente: in questo koan formato confusione ci mette mano, da sola, senza farsi portavoce di notizie strappate da Akendo. Del resto, che senso ha perseguire un percorso più semplice se non può aiutare a maturare? Paradossalmente, è un concetto che le è stato sottolineato pochi giorni fa prima ancora di mettersi in viaggio, quando lei – da Nord – non ha fatto altro che ritrovare assurdamente il proprio Sud e vederselo sfuggire dalle mani, un po’ come tutto quello che tenta di afferrare. Scuote il capo svicolando da quella proliferazione di pensieri: riprenderà tutto, prima o poi. Si fa forte dell’avere niente per potersi appropriare di nuove cose. Ha riavuto quello che morbosamente tenta di non definire “suo” punto mai fisso, e che sia merito degli altri non ha importanza, l’importante è che se lo sarebbe ripreso a costo di lasciarci l’anima inchiodata in questo lezzo di morte. Riprenderà anche il suo Sud. Riprenderà tra le dita la propria identità e la scuoterà affinchè diventi più forte dei fulmini, con la presunzione che solo chi ha perso tutto può vantare. Vanta il vuoto, il petto ricolmo e tronfio di vacuità alimenta l’incontrastata determinazione che spinge la destra a serrarsi ancora lungo la Mala. Storce il naso, e non è di certo quell’alito pestilenziale di Morte alle calcagna ad averla infastidito, quanto più il fatto che quest’ultima fosse riuscita vagamente a circondare e sormontare il tetto del tempio, come avvoltoio, svettando oltre il capo del Rikudo cullato nell’indolenza della frustrazione. Strana, forse perversa, morbosa gelosia – si può essere gelosi della Morte? Una sensazione che la corrode dentro, la presunzione del Tristo di averlo potuto reclamare per sé contro l’egoismo di uno scricciolo che l’ha avuto accanto per così poco che quasi rosica nel non avercelo ora. < Tch.> digrigna i denti, è consapevole – di troppe cose. Di tante, specie del fatto che non si sarebbe sognata nemmeno di trascinarcelo nuovamente qui dentro, per una ricapitolazione d’eventi che sarebbe stata poi dannazione non solo per lei quanto per lui, ma per tutti gli altri. Non la chiami folle perché segue una scia, eppure la sanità mentale desiste quando ci si trova faccia a faccia con la consapevolezza di scavarsi la fossa da soli. Issa lo sguardo, che domanda inutile: rivendica più volte il desiderio di sfuggire dall’ombra di qualcuno, a tal proposito non resterà sotto le distese alate di un Icaro che precipita di suo. Rincalza il passo, si spinge oltre l’uscio lì dove l’entrata del Tempio l’asseconda, forse inglobandola del tutto all’interno di un antro che ha già sperimentato. Le mani, entrambe, si chiudono vicendevolmente dinanzi al petto mediante le maniche larghe che le occultano. Socchiude per un istante le palpebre, umettando le labbra: troppo tempo il mutismo le ha fatto da complice. < Esci > cinguetta, praticamente a vuoto: non sa, non immagina, non si prefissa nulla. Semplicemente < Fatti vedere.> qualsiasi o qualunque cosa sia, non ha importanza. Un paradosso, fatti vedere – se ci sei – che non posso più sgamarti da me. Il silenzio sarà il suo amplificatore, l’apatia la sua migliore arma. [ Chakra ON ]

Ha preso la sua decisione, avanzare ed inoltrarsi nel baratro, conscia o non conscia di cosa vi può essere al suo interno, passo dopo passo, quella fioca luce provenire dall’esterno muore sempre più, fino a divenir solamente buio, ove si giri vi è buio, al suo vociare il silenzio spezzarsi. Di tutta risposta un ringhio…no, due, si due ben distinti, il loro digrignare sempre più vicino, coi tuoi celesti occhi, in lontananza potrai scrutar in quel buio pesto due figure alte non più di un metro, cani a quanto pare, eppure solo splendenti, un argento tendente al celeste, quasi eterei, ad ogni loro passo sembran quasi inconsistenti. Eppure ci sono, eccome se ci sono ed il loro ringhio è sempre più forte, eppure nessuno dei due carica la figura della giovane Ex Hyuga, sembrano quasi aspettarla, fermi ora a qualche metro di distanza, se decidesse di seguirli, assieme a loro macinerebbe diversi metri prima di ritrovarsi ad una delle tante salite, scandite da una moltitudine di gradini, alcuni distrutti, altri semi, ma di salire si sale, diversamente non può fare, se non mollare. Piano dopo piano, la cosa che più potrebbe impressionarla è la quantità di quelle luci eteree, argen-celesti, ma ad un occhio più scaltro, si potrà notare come ogni singola fiamma celeste altri non è che...persone, alcune passeggiano, altre son sedute e sembran parlottare, d’innanzi alla presenza di una estranea, tutte quelle celesti persone s’irrigidirebbero, chi voltandosi, chi no, ad osservarla, fissi su di lei i loro occhi, piano dopo piano, persona dopo persona, all’aumentar del loro numero, e dei piani ormai fatti da Hana, aumenterebbero anche gli occhi fissi su di lei, che stiano parlando, giocherellando, mangiando, ognuno di loro, donne, bambini o uomini, ogni loro azione s’interromperebbe, puntando lo sguardo sulla bianca Hana.
Sono ancora molti i gradini da percorrere, l’altitudine da scalare, occhi su di lei, la protagonista a quanto pare..innalzarsi fin sotto al tetto del cielo? O preferir mollare e strisciare come esseri terreni?.

22:11 Hana:
  [Tempio] Sa d’amara austerità l’occhio che lascia cadere lo sguardo, a seguito di quel formicolio all’altezza della nuca, lateralmente. Forse, una mera casualità l’aver notato che – seguendo una traccia uditiva – le iridi avrebbero trovato sfumature canidi in cui impattare. Le parole impattano contro chissà cosa e non ritornano indietro tanto meno trovano campo fertile in cui attecchire: perse, spese senza compenso, vuote. S’irrigidisce così come l’istinto comanda, pur giacendo nella stasi che smuove movimento solo quando è l’inerzia a comandare, stringendo la mano destra intorno al manico del tessen avviluppato a sostegno del braccio sinistro occultato dalla lunga manica della tunica. Fastidio, l’avverte ancora, come quando fiori piove e la pelle lo avverte ancor prima. Fastidio, lì dove giace il sigillo come marchio impresso a fuoco sebbene di quel giorno non ricordi poi chissà quanto: particolarmente magnanima nel non giurare vendetta, lo chiami odio quando in realtà non alberga null’altro che risentimento in quel gracile cuore sostenuto e fatto di sangue amaro. S’avvelena, passo dopo passo, costringendosi a non sciorinare chissà quale offensiva nei confronti dei due cani che nell’effettivo – pur ringhiandole contro – non avanzano: non che sia codarda, semplicemente si è sempre limitata ad avere il coltello dalla parte del manico quando si tratta di iniziative, lì dove l’animo non suggerisce d’aver colpa né d’imbrattarsi dando agli altri le pedine bianche della scacchiera per avanzare dopo, col nero. Nero è ciò che l’accoglie, nero che si rischiara d’un appena quando il piede destro impatta contro il primo scalino a seguito dei mastini. Vive d’inquietudine ora che, coniuge dell’ansia innescata, si mescola insieme al chakra all’altezza del basso ventre facendolo ruotare più velocemente per istinto. Assottiglia le palpebre, come se ricevere e farsi alcova di più sguardi potesse in qualche modo sfiancarla; oggetto d’attenzioni, ricalca i pensieri di un chiacchiericcio soffuso che la circonda. Luci. Anime? Persone. Inquietanti. Deglutisce, invisibilmente, la saliva gratta contro il palato e si fa portavoce dell’ansia d’un nodo che all’altezza della gola non scende giù - chi ride della sua inquietudine e non si sente percorso da brividi fraterni, sollazzano ancor prima di acuirsi in un silenzio che fa accapponare la pelle. Sarebbe sì, logico, terribilmente umano fermarsi e domandare eppure – No. Sente l’inadeguatezza di un simile pensiero accalcarsi sulle spalle e spronarla ad andare avanti, senza mugolare una parola che sia una. A che pro domandare a chi stanzia, da perfetta cornice, lungo un’asse fatta da scale – un semplice corridoio per un risvolto che sappia d’identità. Ascende, così come ascende chi non è macchiato di peccati terreni per aspirare ad un paradiso occidentale, conscia – questo poco ma sicuro – di dover comunque tornare giù. In quell’altura brandelli d’anima bramano: vogliono, per comporre castamente le proprie egloghe, dormire accanto al cielo. Si stringe tra le spalle, componendo nuovi passi per raggiungere la vetta, abituata oramai agli infiniti scalini di un tempio affidatole come casa e riparo – abituata a dover guardare verso l’alto, tendere la mano lì dove non può raggiungere le cose facilmente. Eppure, a guardarsi indietro nemmeno ci pensa – nemmeno se lo sarebbe aspettato, alla fin fine, di ritrovarsi in qualcosa che potesse essere un disegno ben più grande di quanto progettato. E tutto, mettendo il piede fuori da Konoha. Rischiara gli occhi al cielo, irrigidendosi ma dandosi un contegno: issa il capo, non concedendo null’altro se non uno sguardo in tralice a chi giace al fianco. [ Chakra ON ]

Ad ogni piano raggiunto, saloni di una certa metratura importante si presentano ai tuoi occhi, visibili ancora quelli inferiori, per via di porzioni di pavimento decadute e ormai divenute briciole, i loro occhi ancora ti osservano, seppur non visibile ai loro occhi direttamente, il loro sguardo rimarrà fisso, su quella cima delle scale del loro piano. Così i seguenti, uno dopo l’altro, ogni piano diversi saloni, diverse celesti figure vivere azioni quotidiane, infine…ecco sei giunta all’ultimo piano, un immenso salone ti si presenta d’innanzi, spoglio, morente, con alcuni archi ormai semi-distrutti e così altri dettagli, morenti, cadenti…eppure la vi è solo la tenebra e nulla più, diversamente dai piani inferiori qui non vi è luce non vi è persona a solcar il terreno se non i due mastini che ora lascerebbero il tuo fianco, accelerando, seppur di poco, il loro passo, distanziandoti di qualche metro. Qualora decidessi di proseguire, ad ogni tuo passo una figura argen-celeste apparire ai tuoi lati, ma nessuna di queste ti degna d’attenzione, passo dopo passo l’intero salone si ripopolerebbe, quasi come se fossero i due segugi a risvegliar quel loco, dopo qualche passo, all’incirca un quarto dell’immenso salone, dalla pianta dei tuoi piedi diramarsi diverse luci del medesimo colore di quelle figure, luci che a loro volta si ramificherebbero sempre più, legandosi ai pavimenti, ai muri adiacenti, soffitti e architetture ormai distrutte. D’innanzi ai tuoi occhi ricchi di stupore una cittadella splendente si formerebbe come per magia, ogni singolo filamento darebbe vita a diverse costruzioni, abitazioni, vie, mercati, una piazza in lontananza e cosa più importante, la presenza maggiore di queste figure avvolte dalla celeste luce, così come ogni altra cosa, risultando ai tuoi occhi un qualcosa di assolutamente mistico, che risplenderebbe per tutta la stanza del piano, fatta eccezione per la parte più lontana. Una sorta di sfera, quella usata per giocare, si fermerebbe a pochi centimetri dalla tua figura, prima che ti possa chinare a raccoglierla o fare qualsiasi altra azione, venirti incontro una bambina ed un bambino, corrono, giocano e si divertono, probabilmente nel tentativo di rubarsi la palla a vicenda, come detto poc’anzi, non avrai tempo di fare alcuna azione, figurarsi scansarsi, poiché i due bambini continuerebbero a correre non curanti della tua presenza e nel momento più fatidico, la bambina, rincorsa dal bambino, ti trapasserebbe le gambe, poiché quella è l’altezza infantile, a seguire il bambino, mentre il pallone proseguirebbe calciata da quest’ultimo. Al loro passaggio, un brivido percorrere la tua schiena, poi un secondo, irrigidita si ma di certo non nel totale controllo del momento, ritrovandoti che tu lo voglia o meno a vociar un urlo, non troppo forte ne di paura, forse anche solo sfogarsi per quello strano evento, eppure la tua voce verrebbe udita…eccome, se prima nessuno ti degnava di uno sguardo ora tutti i loro occhi sarebbero puntati su di te, l’intero mercato s’arresterebbe, così come la corsa della bambina e del suo compagno di giochi, insomma nulla di diverso da come era stato per salire i gradine, eppure… qui c’è una sostanziale quanto mai più importante dettaglio rispetto a prima. Se prima per te eran solo figure avvolte da fasci celesti, lontane dai tuoi gradini, distanti dal tuo sguardo, ora si trovano a pochi metri, i bambini anche meno e sarà allora, che volgendo lo sguardo proprio verso quella bambina, noterai che avrà i tuoi stessi occhi, così come la loro…inconsistenza, la stessa pelle, gli stessi tratti, uguali in ogni particolar che vi può accomunare, come lei, anche il bambino. Il tuo sguardo come frenetico si volgerà uno ad uno sui presenti, il bambino a seguire la bambina, dopo di lui il mercante più vicino, e così via, famiglia, anziano, giovane ragazzo, vecchietta alla bancarella, ognuno di loro muto, immobile, fissarti e solo tutti con le stesse somiglianze nessuno escluso. Assieme al tuo sguardo la mente vorticare e la confusione come il senso di oppressione e difficoltà a respirare si farebbero largo nel tuo cuore…la rappresentazione della vita a pochi metri dal tuo viso messa in scena da un mucchio di spiriti...morti. Quale ironia se non quella di un dio?

23:23 Hana:
 Il tempo la inghiotte, minuto per minuto, come fa la neve immensa d’un corpo irrigidito. L’ansia rappresa forma croste che addosso calza come un’armatura che possa preservarla da occhiate indiscrete e non, mentre avanza – ancora – rivestita di silenzi ed inquietudine, perenne. Un rantolo di sconforto, la malsana idea di mettere un piede indietro e retrocedere cullata poi dalla vana reazione a catena che un gesto simile possa portare. Così terribilmente atipica, lì dove uno shinobi della sua età ritroverebbe l’adrenalina giusta per ribaltare il mondo, ella non trova altro che sfumature d’emozioni che giacciono morte ancor prima di nascere nella mente, riecheggiano così tanto che le fanno quasi paura. Cheto è veder nascere tra le brume la stella nell’azzurro che rischiara lungo tutto il sobborgo ogni anfratto che si tinge di molteplicità; il profilo duplice di un salone che accoglie in sé l’universo tutto condensato in una cittadella di anime. Dopo una sfilza di saloni fatti di pareti e scenari stantii a cui addirittura l’occhio con difficoltà può dirsi abituato o quasi, raggiunge l’ultimo anfratto fatto di vuoto. Scuro. Nero. Scuro e limpido di un cuore divenuto ormai specchio di se stesso, chiaro e nero, ove palpita una livida stella faro ironico, infernale, torcia di grazie e sollievo quanto gloria: a cospetto di quest’ultimo si rischiara l’universo cittadella, sfarfallando le ciglia ne riscopre i dettagli lugubri di luci fioche or divenute anime così… verosimili. < Mh.> comprime le labbra, mentre il capo lentamente s’abbassa constatando quella minuta sfera raggiungerla appena. Ci mette davvero troppo per sbrigliare l’attenzione dai contorni verosimili di quel posto, considerando che la cosa le risulta più paradossale del giorno in cui con Hiashi si trovò in un sottomondo in grado di respingere il chakra. Se dapprima la destra risultava avvinghiata al ventaglio rinfoderato nella manica sinistra, ora la mano destra s’avvinghia all’avambraccio sinistro – occultato sempre dalle maniche bianche della tunica – grattando e graffiando con le unghie, alla ricerca di sensazioni terrene – come il pizzico di un leggero dolore – per potersi accertare dell’effettiva verità a cui lo sguardo è sottoposto. Indietreggia, giusto d’un passo, con l’intento di abbassarsi ma – No. Non che non faccia in tempo, semplicemente matura tardivamente l’idea e allo stesso modo non ci sarebbe stata occasione per raccogliere quell’oggetto e sentirsi poi così… Svuotati. L’investe, quell’anima. A ridosso del corpo, la bambina s’infrange trapassandola. Tutto ciò la fa sentire così… svuotata. Ancora una volta, Utsusemi. Un guscio. Rabbrividisce, perché l’orrore d’esser più vuota di quanto si sia convinta di non essere, martella la tempia più dell’oppressione. < - > Ed è davvero inutile che io riporti quanto le sue corde vocali hanno fatto per lei, urlando inconsapevole, placcata da una volontà repressa: quella di liberarsi. Le manca un tassello, un pezzo del puzzle – quell’urlo, da ella stessa emesso, non l’ha sentito. La destra s’issa, repentina, d’istinto copre le due fessure cremisi che inconsapevolmente hanno schiuso parola facendo librare in aria il suono frastornate della voce che no, non ha sentito. Come sordo, se ne è tenuta fuori. Inciampa nelle parole come nel selciato, urtando qualche volta in versi a lungo sognati. Le mani tremolano appena, un riflesso incondizionato al solo timore d’aver perso per un istante il controllo del proprio corpo aggiudicandosi una nuova cascata di sguardi su di sé che la portano a stringersi nelle spalle, tamponandosi le labbra e sgranando le palpebre. Le falangi tastano il naso, premonizione dell’ultima volta in cui è stata vittima di un genjutsu, alla ricerca di tracce che siano liquido ematico sgorgato dalle narici, lasciandosi accompagnare da un vago senso di nausea dettato dalla labirintite. Svaporano gli affanni verso il cielo, annaspa aria quando si costringe a toglier le proprie mani dal proprio viso cercando d’allungarle invece verso quella della bambina più vicina: il suo intento, semplicemente quello di tastarla. Di raccogliere, tra i palmi, il viso acerbo di quell’esserino che le somiglia così tanto da esserne un riflesso pallido ed immaturo. Che vi riesca o meno, facendosela sfuggire dalle mani, procederà in avanti forse con qualche affanno in più – gli occhi sgranati di chi cova inquietudine nel petto e più ansia di quanto potesse albergare prima. [ Chakra ON ]

Tutto ciò sa di irreale eppure ciò che le persone credono surreale o inverosimile magari sono il quotidiano per qualcuno a loro superiore, sappiamo veramente ove possiamo spingere i nostri limiti? Trapassarli e poter accedere a qualcosa di più, l’esempio più lampante sono i ninja leggendari, quel che per molti era impossibile da fare per loro era quotidiano, chiamati fenomeni o rare persone, come in questo caso, chi può dire fin dove può arrivare il potere di una persona? Forse in questo caso l’egoismo e la solitudine, quella folle, quella che ti divora, divenendo un tutt’uno con quel senso di vuoto che t’attanaglia e non ti lascia più fuggire, inglobandoti. Le tue mani si allungherebbero sul viso di quella bambina, bambina che dapprima abbozzerebbe un tiepido sorriso, come contenta del gesto che tu voglia compiere, per poi girarsi di scatto e fissare il “cielo” di quella cittadella, che altri non è che il soffitto a pezzi aperto, lasciando intravedere del cielo notturno. Come lei però, anche tutti gli altri sono girati verso quel fittizio cielo, se Hana sollevasse assieme a loro lo sguardo, potrebbe rendersi conto dell’immenso ammasso di meteorite lentamente scendere da quel cielo, risucchiarsi tutto ed infine impattare, l’onda di morte e di fuoco risucchiare tutta la cittadella, fiamme e distruzione che arriverebbero ad un palmo dal tuo viso, la mano che ormai avrebbe raggiunto quel viso, volto verso il cielo della bambina, rimarrebbe con un pugno di mosche, poiché l’arrivo dell’onda di morte e fiamme, causata dal meteorite, raggiungerebbe te, che non fai parte di quel mondo…di quel ricordo, di quell’evento, ma raggiungerebbe i due bambini, le loro carni lentamente scomparire risucchiate da quella lingua di fuoco, dapprima la carne poi i nervi, così come ogni altro tessuto presente fino allo scheletro, cercherebbe di girarsi verso te, ma del suo volto ormai è rimasto un mezzo teschio con appesa ancora qualche tessuto rossastro, poi lentamente sgretolarsi anche quello divenendo polvere, così come l’intera cittadella, sullo sfondo il fumo e la grande luce emanata dal meteorite…la stessa onda ti trapasserebbe portandosi via tutta quella celeste luce, di te non se ne fa nulla, così…comparirebbe ogni cosa, ogni singola luce, riportandoti in quel buio, così solo...così vuoto. L’unico punto, che fino a poco fa era intoccato dalla celeste luce della cittadella, mostrerebbe dei fuochi, che illuminerebbero un trono, trono fatto di fredde pietre, vi è una figura seduta, quasi sbracata se si vuol utilizzare un termine più grezzo, le dita picchiettano su quella nuda roccia, come se ti stesse osservando, come tutti del resto, ti osserva fin da quando hai messo piede in quel tempio…probabilmente dalla prima volta.

00:04 Hana:
 Quello del cielo, uno stillicidio che non lascia adito alla salvezza. E’ canto mortifero, litania di anime già spente: a sembrare così umane da poterle palpare, stringere un volto tra le mani ed essere accecati dalla sentenza che è già calata – pesante – come falce, spada di Damocle a pendere su delle teste già mozzate e decapitate in precedenza. Li ha visti come spettri di un mondo non esistente e proprio ora, a convincersi della realtà, si vede ancora una volta reduce della disillusione. Tra i polpastrelli tenta di agguantare un rantolo di verità, che sia il volto di una bambina che ora giace tra le macerie di una corrosione imminente. Ed è sgomento, palpitante quanto il cuore che accelera: di quell’organo che ormai non credeva più vivo, ora ne sente il battito distinto ed il fuoco che pompa sangue facendole arrancare ancora più aria. Uno spasmo nervoso la condanna all’immobilità, l’ennesimo brivido s’afferma lungo la linea della spina dorsale condensandosi sotto forma di paura. Quasi… terrore. Soggezione. L’inquietudine e l’ansia mutano in impotenza, nell’egoistico desiderio di ripararsi facendo sfilare dalle mani il cranio della bambina eppure… ferma, giace immobile. Lo riconosce, questo è il suo punto: il trauma si manifesta in lei senza urla, senza disperati attacchi di panico bensì nell’impotenza di agire. Risponde così alla paura che fino ad ora, effettivamente, non ha mai assaporato davvero. Immobile, le mani prostate in un padre nostro che no, non richiama divinità né fa appelli poiché lo sgomento ancor l’alimenta. Irrigidita, le palpebre sgranate e le labbra chiuse ermeticamente: tra le mani nient’altro che un cranio, dapprima pullulante di fasci nervosi, ora quasi scarnificato. Via via, disossato, reso praticamente… polvere. Che sfila, dalle mani. Di nuovo. Di nuovo qualcosa che le scivola via. L’ennesimo nodo in gola che istiga un nodo a sua volta all’altezza dello stomaco ove ogni muscolo si contrae in uno spasmo di fastidio. La palpebra destra diventa vittima della mioclonia che la costringe così a vibrare, nervosa, dando un leggero accenno involontario di epilessia probabilmente reduce di qualcosa che non aveva nemmeno minimante calcolato e che – non riuscendo ad esternare bene, così come solitamente non riesce ad esternare decentemente ciò che pensa o ciò che prova – si risolve in vibrazioni e spasmi involontari della palpebra. Nervosismo, puro. S’attesta lì dove, alzando lo sguardo, tra polvere e macerie non resta altro che una singolare figura - Lì che troneggia su di uno scranno alto, prende le proporzioni dell’immortalità. Giace, come re d’un piovoso paese, ricco ma impotente, disprezzando gli inchini del suo popolo s’annoia comi suoi cani ove niente può allietarlo. Altro non pare che, seppur materiale vivente, granito circondato da un vago spavento e assopito sul fondo di un deserto brumoso fatto di macerie. Un cimitero aborrito dalla Luna in cui, come rimorsi, ci si trascina accanendosi continuamente sui più cari dei morti. L’intera città versa nella sua urna grandi zaffate di un freddo tenebroso su pallidi abitanti dai profili sbiaditi, or disciolti ed or fatti a pezzi in questo martirio che non ha dato scampo in diaspora, rovesciando la sua morte in formato di meteore – Un’immensa tomba, a contarli contiene più morti d’una fossa comune. Sorge spontaneo domandarsi come, se fino ad ora immobilizzata, stia trovando la forza per provare ad avanzare: un passo alla volta, lento, tremolante e sfiancato. Batte le palpebre, nemmeno riesce a comprendere come sia possibile impiegare più coraggio nel provare a connettere la situazione piuttosto che avanzare: lentamente, scinde ogni singolo avvenimento da quando ha messo piede qui dentro. Ne appura l’impossibilità di una realtà concreta, in così poco tempo, fatta di vere meteore: a quest’ora dovrebbe già esser morta. Una… visione? Qualcosa di simile? Aveva messo in conto un genjutsu, ma non può dirsi pienamente convinta sia tale. Non chiede, tuttavia – e sbaglia. Sbaglia, a non parlare arrogandosi solo la presunzione di avanzare verso quello scranno fingendosi inalterata quando non vi è nulla che possa esser perenne frutto della cupa indifferenza. Nuovamente le mani trovano ricovero nelle ampie maniche, occultandosi, cercando una compostezza ed un’alterigia che non facilmente trovano modo d’esistere. In conclusione, qualora fosse riuscita a raggiungere il trono ad almeno due metri di distanza, vi si soffermerebbe. < Non sembra essere una sorpresa, la mia presenza, per te.> atona, quasi distaccata. Una scorta fatta di cani, un cammino costellato da sguardi e l’accoglienza di una visione che fosse vera o meno, progettata su misura per lei. Insolente. Forse è così che la etichetterebbe, un Dio – specie quando il tarlo, la pulce nell’orecchio di un’essenza divina presente e risvegliata, le è stato messo da Yukio e lei dovrebbe esserne consapevole in parte. [ Chakra ON ]

La visione avuta e ciò che rimane è solo tenebra, se non fosse per quei due fuochi e quella figura ancora poco visibile, richiamarti quasi…indirettamente, come se volesse vedere il tuo viso da più vicino, d’altronde ci sarà un motivo se ti ha fatto arrivare fino a li. Passo dopo passo la figura da quell’alto scranno diverrà visibile man mano che ti avvicini, rossastri i capelli, lunghi fino a dietro la schiena, un manto bianco ricoprire l’intero corpo, su di esso alcune tomoe rosse, il volto, unica parte scoperta presenta due piccole protuberanze , li tra quei folti, capelli, paion quasi delle piccole corna, la cosa più importante però, che catturerà lo sguardo di Hana saranno i suoi occhi…un rinnegan mai più vivido di così hai visto eppure…ah no, quella lucentezza, quella potenza eccome se l’hai già vista, negli occhi di un altro possessore del rinnegan o per meglio dire del possessore anche di questo rinnegan, ironico come ad uno il rinnegan sembri ormai morente, bianco pallido e ad un altro, ladro dell’immenso samsara, vivido e lucente…più forte che mai. Un bastone è posato tra le sue gambe, un nero tendente al viola, ma oltre al colore, al particolarità è la consistenza, difficile da capire. Ora che lo guardi meglio non ti sembra assomigliare ad una figura già ricorrente nella tua vita? Su di un freddo scranno giudice delle vite altrui, annoiato da quelle stesse vite che monitora, non vi è forse tortura peggiore dell’annoiarsi per coloro che tanto possono ma in nulla trovano gioia? Qualche somiglianza c’è e si vede, ad Hana non potrà venir meno la voglia di domandarsi se anche Akendo, il suo, farà questa fine…tra scheletri ed ossa, re della morte, supervisore della vita. Peccato che il rosso non è di certo come Akendo e di morte ne ha già portata abbastanza, capire ora cosa trami, soprattutto dopo aver estirpato tanta di quell’energia da Akendo per mesi. Le parole della ex Hyuga paion quasi sussurro per il divino rosso, come se la loro importanza fosse irrilevante, le sue parole in compenso riecheggerebbero nella stanza, penetrando nella tua mente, affinché tu non possa sfuggirgli <ciò che hai visto non è che un frammento del passato di un grande popolo ormai estinto> attimi di pausa <un popolo al quale a quanto pare appartieni…Otsutsuki> impercettibile il suo movimento, qualcosa che va oltre il suono, il tempo e lo spazio <hai i nostri stessi occhi> ora che sarebbe a pochi pami di distanza dal tuo volto, non è la prima volta che incroci così da vicino lo sguardo del rinnegan, ma al termine di quelle parole, il rinnegan farebbe posto a questi stessi occhi che ora adornano le cavità oculari di Hana, ma a differenza del semplice celeste di Hana e di quelle figure spiritate, il rosso presenterebbe un celeste brillante, splendente, ricolmo di una luce che prenderebbe sempre più largo attorno alla pupilla, prendendo una forma pentagonale, ricordando vagamente uno shuriken, pochi istanti prima che la sua figura avanzi alla medesima velocità…trapassandoti come fatto precedentemente da quelle celesti figure. Al suo passaggio, lentamente sentiresti la mente cedere e così il tuo corpo, debole, svuotato di ogni energia, dopo la mente ecco i muscoli delle gambe, come pietra diroccata, cedi crollando al suolo…svenuta, al tuo risveglio sei sola, non una di quelle figure ad osservarti, non il divino rosso, non i segugi, è sola, lo puoi percepire, il silenzio che nuovamente riempie quel loco, si… sei da sola, quel tempio ora è morto. Ma se da una parte qualcosa muore, d’altra rinasce, così come la speranza di Hana, così come le parole di Akendo avevano visto giusto, grazie al proprio occhio, il potere Hyuga non era altro che la stessa catena che al limitava, assurdo pensare come un potere possa trattenerne un altro eppure non vi è logica migliore, poiché serve un grande potere per poterne bloccare uno ugualmente o addirittura superiore, come in questo caso, al riaprirsi delle di lei palpebre, il medesimo motivo nei suoi occhi ora più celesti che mai, brillanti e potenti come quelli del rosso, questione di secondi prima che tornino il semplice celeste di prima ma tanto può bastare. Il vero potere si è manifestato.

01:04 Hana:
 Che tu sia apparenza? Noncuranza e disinvoltura s’alternano in poche frasi stillate da una voce mai sentita e che stupra la mente, echeggiando, ricercando tra le pareti dell’attenzione dell’Ex Hyuga qualcosa che faccia da cassa di risonanza. Nasconde le mani poiché vergognoso è il tremolio, spasmodico, che la possiede costringendola ad avvinghiare le unghie le une sul braccio delle altre. Tesa, una corda di violino mai sfregata fatta da accordi dissonanti, uno sguardo che – lamina tagliente – s’adagia sui dettagli della sua figura ove non reclama né cuce la sua beltà pur notandone la palese diversità, astrusa agli occhi di un comune mortale. Una tavola imbandita di domande che, come prelibatezze l’una più avvelenata dell’altra, gli somministrerebbe senza pregiudizio eppure… Deglutisce. Ancora. Per la seconda volta manda giù il grumo di saliva facendolo discendere tra i nodi d’ansia che trovano più grovigli di quanto non possa essere la mala aggrovigliata intorno al braccio destro: ridicolo presenziare al cospetto di una divinità con un rosario. La sua noia intransigente solletica sì, domande, ma nel porsi il quesito trova anche risposte – rabbia, più che altro. Nasconde che, alla fine, sarebbe disposta a vendere l’anima in un ciclo di reincarnazioni sempre più monotono per non sciogliere questo samsara e che forse, più stupida di quanto si creda, possa rinunciare al nirvana per rimanere su questa terra sotto forme diverse solo per lui. Per non annoiarlo. Per dargli un alito di vento freddo tra le macerie della morte. Si riscopre più infantile di quanto non possa essere, attribuendo a lui la parte marcia – come quella sana – della mela. Del resto, è grazie a lui che si scopre sempre meno perfetta di quanto già non si creda. < “A quanto pare”.> rimbecca, una nota acida allo stesso modo alimentata dal nervosismo. Possibile che, di tutto quel discorso fatto di poche parole, le sia entrata in mente la mera casualità di essere finita lì? Quel nome, Otsutsuki, l’aveva già metabolizzato facendone dei sospetti – in parte suoi ed in parte alimentati dal Kage – una verità. Eppure… le manca il coraggio di chiedere, o per lo meno le sovviene – sotto al palato – una nuova domanda, cucita a ridosso del rinnegan e quel senso di stizza che la indice a credere sempre di più, associando gli eventi e la collocazione di un essere del genere con la stessa peculiarità di un uomo torturato per mesi in questo stesso posto, di avere di fronte un carnefice più che un grande uomo o una grande divinità. E allora... l’azzardo -< Sei tu che-> è un pensiero che, in accordo con quanto lo circonda, muore sul nascere stroncato sia dai troppi dubbi sia dal poco tempo elargito per formularli. Sei tu che hai mandato quei due? Sei tu che hai avuto anche solo il coraggio di aspirare alla sua anima tenendolo vivo ed ancorato ad un muro? Sei tu, la persona alla quale regalare la mia frustrazione ed i migliori sentimenti di rancore e morte precoce? Qualcosa, una sensazione – a pelle – settimo senso, nemmeno sesto, le dice che troverà in quel silenzio una spiegazione eloquente. Eppure… non le basta. Più di quanto non fossero già sgranate, le palpebre si riaprono accogliendo un incastro di colori nuovo e repentino: i denti si saldano sul labbro inferiore, martoriandolo fino a scaturirne un rigolo di sangue che ne macchi il derma candido lì dove la foga monta. La percepisce quella sensazione. Simile al genjutsu, simile al modo in cui – sempre nei momenti cruciali – si sente venir meno.< NO-> Non ora. Non ora che, per l’ennesima volta, c’era ad un palmo così distante. La destra s’allunga, sfila dalla manica, le unghie tentano letteralmente d’avvinghiarsi al collo di chi – seppur intravisto come Dio – disceso al suo livello le stanzia di fronte. Ed è inconcepibilmente immensa la voglia che ha di serrargli l’arto lungo i canali respiratori, sopprimendoglieli pur consapevole che tutto questo sia vano per una divinità, direttamente proporzionale al fallimento dell’arto che sbanda – trapassa e si fa trapassare a sua volta da quell’anima. Un’altra. Il proprio urlo l’ha sentito, il diniego, quella corroborante ondata di nervosismo rappresa in spasmi di un corpo tremante che induce le ginocchia a cedere: schiacciata da una pressione indotta dal peso delle gambe, non stanche ma provate, trovano stasi al suolo così come le mani che s’avvinghiano per terra – crolla, come una torre, distrutta ma col viso verso l’alto a farsi beffa di una decisione che non ha preso. Infierisce sul suo corpo, non ne trova il controllo che desidera, l’ennesima vibrazione delle palpebre che la induce florida e recidiva mioclonia prima di svenire, letteralmente. Ed è buio, freddo, sfiatato dalle narici. La frustrazione, ancora, s’intesse e la copre come una coperta anche nel momento in cui sente riaffiorar la coscienza. Le mani si serrano entrambe in due pugni, ed il richiamo del chakra – sopito probabilmente in parte – non è altro che un appello ad un impasto tormentato, furioso e vorace. Neanche il tempo di rialzarsi dal suolo e battere le palpebre per riacquistare la vista che le due parole, morte prima ancor di svenire, riempiono la bocca resuscitando. < DOVE. SEI.> Si guarda intorno, sentendo l’irritazione plasmarla, avvertendola scorrere in ogni fibra del corpo insieme all’impasto cercando – con lo sguardo – il rosso, una forsennata che non farebbe invidia ad una megera nel modo di sbattere i pugni, violentemente, al suolo. Non capricciosa, semplicemente adirata – quel po’ che le basta per pretendere risposte.

Hana tira un D100 e fa 65

END

Nulla da dire, role non facile ma hai retto fino all'ultimo e sopratutto coinvolta good.

tiro dado 65
punteggio master 20

Innata 85%